Gli inglesi in Iran sbagliarono, ma ora il peggio deve ancora arrivare

Gli inglesi in Iran sbagliarono, ma ora il peggio deve ancora arrivare

Erano decenni che Londra non entrava nelle mire delle popolazione iraniana (o chi per lei): l’assalto all’ambasciata della Gran Bretagna, a Teheran lo scorso martedì, è un inatteso ritorno sulla scena dopo anni di monopolio statunitense. Dalla Rivoluzione Islamica del 1979, Washington aveva calamitato quasi tutte le attenzioni delle proteste anti-occidentali degli iraniani, e in particolare delle Guardie Rivoluzionarie. Negli incerti mesi del ritorno di Khomeini dopo la cacciata dello Scià, un commando di studenti, soldati e vari facinorosi prese in ostaggio 52 americani per 444 giorni.

In qualche modo, Londra trent’anni fa deve aver vissuto come uno smacco – l’ennesimo – il fatto che gli invasati avessero deciso di dirigersi verso l’ambasciata con la bandiera a stelle e strisce, e non verso quella con l’Union Jack. Prima di diventare un pilastro statunitense nello scacchiere mediorientale, l’Iran era infatti stato il centro degli interessi britannici nella regione. Di più: l’Iran era vitale per la Corona, che aveva iniziato a spostare le sue attenzioni dalle miniere di carbone del Galles, alle riserve di petrolio del Golfo Persico. L’odierna BP era nata proprio in Iran nel 1908, come “Anglo Persian Oil Company”, e il suo ruolo era diventato tanto più fondamentale, quando pochi anni dopo il Primo Lord dell’Ammiragliato Winston Churchill ordinò di rottamare le navi a carbone per passare a quelle che viaggiavano con la nafta. Da qui era nata la necessità di tirar su una raffineria, ad Abadan, vicino al confine con l’Iraq. Sorta dalle sabbie nel 1913, rimase per quasi cinquant’anni la più grande del mondo. Qui si scatenavano con tutta la propria forza gli impeti violenti delle organizzazioni ribelli iraniane: all’inizio erano finanziare da Mosca, e poi presero una via autonoma e nazionalista.

Nei fatti, l’ultimo Scià iraniano Reza Pahlawi era una creatura britannica. Suo padre Reza Khan, anch’egli nato per volontà inglese, con gli anni aveva perso interesse nella perfida Albione. Giocò un paio di dispetti a Londra, tra cui la cancellazione di un permesso petrolifero e la concessione di permessi di sorvolo a Lufthansa al posto di Imperial Airways. Alla prima scusa, Khan fu rimosso; e la scusa fu rappresentata dall’invasione anglo-sovietica del paese nel 1941. Come motivazione di pensò di addurre che il signore, forse, si era un po’ troppo sbilanciato verso le mode politiche tedesche del periodo: Kahn era amico di Goebbels e aveva cambiato il nome del paese da “Persia” a “Iran”, o “Terra degli Arii”.

Agli inglesi ciò valse il fastidio di cambiare il nome dell’ “Anglo Persian Oil Company” in “Anglo Iranian Oil Company”. Per il resto, con un nuovo Scià ventiduenne, c’era libertà di fare quello che si voleva: bastava attendere che gli ex-amici dell’ex-sovrano persiano abbandonassero il quadrante – e il dramma di Stalingrado servì allo scopo. Ma anche la fine della guerra non significò il ritorno alla tranquillità delle lente operazioni petrolifere. Stalin fece finta di non esser mai stato a Teheran, con la relativa conferenza del 1943, e in particolare finse di aver dimenticato una risoluzione che lì era stata decisa: dopo la fine della guerra, tutti dovevano abbandonare l’Iran entro sei mesi. Nel 1946 l’Armata Rossa era ancora bellamente nelle province settentrionali del paese. Per convincere Stalin che era il caso di tornare a casa, i britannici da soli non bastavano. Rimosso Churchill da un elettorato ingrato, il nuovo premier laburista Clement Attlee riuscì ad appoggiarsi a Truman per inviare ai russi un invito credibile, quanto efficace, a tornare in patria.

La raffineria di Abadan rimase però al centro delle pressioni. Era il simbolo non solo della potenza britannica, ma anche di quanto il suo modello post-coloniale fosse stantio e inumano. I manager dell’Aioc vivevano in lussuosi compound con piscine e campi da tennis, mentre le manovalanze locali abitavano ad “Kaghzabad”, o “Città di carta”, un orrendo slum in cui le mura più resistenti erano fatte con barili di petrolio schiacciati a martellate. Nessuno si sorprese quando i russi iniziarono a far leva su questo buco nero di umanità e interessi petroliferi per dar fastidio agli inglesi. Il primo sciopero aveva poco a che fare con i sovietici: le proteste dei lavoratori nel marzo 1946 furono sedate da stormi di arabi al soldo di Londra. L’Urss ebbe un ruolo più importante per uno sciopero indetto nel 1951: la formazione politica filo-sovietica del “Tudeh” stimolò i disordini per tre giorni, conditi da decapitazioni di filo-inglesi e altre becere amenità.

Gli inglesi però tennero duro, almeno fino a quando l’ancor giovane Scià non si fece sopraffare dai progetti di nazionalizzazione petrolifera da parte di un primo ministro, Mohammed Mossadeq, nei primi anni Cinquanta. Nel frattempo, Churchill era tornato al potere: provò a organizzare un piano di occupazione della raffineria iraniana, completato da un progetto di rimozione del fastidioso nazionalista. Mossadeq aveva comunque buoni contatti, e sospettando che i britannici tramassero qualcosa, ordinò di chiudere l’ambasciata di Londra e fece accompagnare i suoi inquilini in aeroporto. A quel punto, a Churchill non rimase che richiamare tutto il personale anche da Abadan, il quale celebrò l’ultima notte araba (Abadan è nell’unica provincia araba dell’Iran) in maniera assai occidentale, dando fondo alle riserve di whisky. Poi, il paese fu sottoposto a embargo da parte britannica, e mal ne incolse alle avventurose aziende italiane che provarono comunque a rifornirsi dagli iraniani. Mossadeq, affascinante populista adorato dalle masse, fu eventualmente rimosso da un colpo di stato nel 1953, in cui fu fondamentale il contributo americano. I consorzi estrattivi furono aperti alle multinazionali, e l’Aioc dovette fare spazio agli altri – con l’esclusione di Mattei, che però s’inserì surrettiziamente con una delle sue mosse da italiano del boom.

La Gran Bretagna ebbe poi circa venticinque anni per farsi disprezzare dagli iraniani, fino a che la Rivoluzione Islamica non convinse Londra che era il caso di levare le tende. Nel frattempo, un commando di arabi della provincia di Abadan, il Kuzhestan, nel 1980 ebbe la bella idea di occupare l’ambasciata iraniana a Londra e prendere in ostaggio varie persone per sei giorni. Meritarono il primo impiego in grande stile delle Sas, le teste di cuoio d’oltremanica. Cinque terroristi su sei ci rimisero le penne, e il premier Margareth Thatcher incassò un cinico dividendo politico. Poi le cose si normalizzarono: nel 1988 il Regno Unito riaprì l’ambasciata a Teheran. Khomeini per ringraziare il giorno dopo indisse la famosa fatwa contro Salman Rushdie, che risiedeva a Londra e diede un bel daffare a generazioni di servizi di scorta. In seguito, l’Iran non ha mai trascurato di far notare il proprio fastidio per la presenza di britannici dentro e attorno al suo territorio: nel 2004 e nel 2007 nel Golfo Persico la flotta iraniana ha catturato alcuni marinai della Corona, rilasciati dopo qualche giorno e tanti imbarazzi.

L’ultimo episodio di Teheran ha una causa nota: la decisione anglo-americano-canadese d’inasprire le sanzioni contro l’Iran, sospettato di coltivare ambizioni fin troppo raggiungibili di avere una bomba atomica. Un migliaio di persone si è radunato davanti all’ambasciata britannica, più o meno spontaneamente, e ha iniziato a devastarla. A Londra si è pensato di invitare il personale diplomatico iraniano a lasciare il paese entro 48 ore. La storia che lega l’Iran e la Gran Bretagna è fatta di astio culturale e desiderio di rivalsa. È comprensibile il complesso di Teheran nei confronti dell’ex-potenza coloniale: l’odio verso gli inglesi è parte della cultura nazionale. Siamo però oggi a un punto di svolta: le mosse delle ultime settimane lasciano intendere che un attacco è imminente, o che la possibilità di attacco è stata messa sul piatto negoziale. L’assalto all’ambasciata inglese è stato un atto d’ingenuità politica. È il tipico colpo di coda di un regime che non ha più presa sulla folla. Il peggio deve ancora arrivare.

*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e autore di “La Guerra del Clima – Geopolitica delle Energie Rinnovabili”.