Guerra utile? Se cade la Siria l’Iraq diventa un incubo

Guerra utile? Se cade la Siria l'Iraq diventa un incubo

C’è un filo diretto che lega Damasco a Baghdad, l’implosione del governo di coalizione iracheno e l’escalation di violenze nella Siria di Assad. In Iraq, ammainata la bandiera americana, è stata squarciato il sottile velo sotto cui si nascondevano gli odi settari, che avevano portato alla guerra civile tra sunniti e sciiti nel biennio 2006-2007. Un conflitto placato solo dal nuovo approccio, pragmatico ed inclusivo, dell’amministrazione Bush e del surge del generale Petraeus, oggi al vertice della Cia.

Barack Obama, nel salutare le truppe a stelle e strisce che lasciavano l’Eufrate, aveva parlato di un Iraq «sovrano, fiducioso in se stesso e democratico». Ma quello dell’inquilino della Casa Bianca è parso più un auspicio che la presa d’atto di una realtà. Non appena l’ultimo soldato americano ha varcato il confine con il Kuwait, tutta la struttura faticosamente messa in piedi da Washington ha mostrato la sua intrinseca debolezza. Prima il mandato d’arresto spiccato contro il vicepresidente iracheno, il sunnita Tariq al Hashemi, accusato di terrorismo dallo stesso premier, lo sciita Nouri al Maliki. Poi una serie di attentati in dodici quartieri della capitale, che hanno fatto almeno 72 morti e 150 feriti.

Al Hashemi si è rifugiato nel Kurdistan iracheno e le richiesta di consegna fatte dal primo ministro alle autorità curde sono cadute nel vuoto. Al-Iraqiya, il blocco di forze a cui appartiene il vicepresidente, ha reagito boicottando governo e parlamento. In questo scenario balcanico, al Maliki ha chiesto a sua volta le dimissioni del proprio vice, Saleh al Mutlaq, reo di avere definito la gestione del potere da parte del premier «una dittatura peggiore di quella di Saddam».

Ci sono voluti otto mesi per formare un governo di unità nazionale che mettesse d’accordo sunniti, sciiti e curdi, ma questa impalcatura non ha retto di fronte a un movimento combinato: da una parte il completamento del ritiro delle truppe americane, dall’altra il confronto settario nella vicina Siria. La situazione dei due Paesi è speculare: l’Iraq è uno Stato a maggioranza sciita, in cui il potere, all’epoca di Saddam, era in mano ai sunniti del partito Baath. A Damasco, invece, è la minoranza alawita, alleata dell’Iran sciita, a dominare su una popolazione in larga parte sunnita. Se il regime change a Bagdad ha portato gli sciiti al potere, un’eventuale caduta di Assad consegnerebbe il Paese in mano ai rivali sunniti.

Una prospettiva che al Maliki vede come un incubo. Le aree sunnite dell’Iraq sono proprio quelle vicine al confine con Damasco. Gli sciiti sono terrorizzati dall’ipotesi di un’alleanza tra i sunniti siriani e quelli iracheni. D’altronde, dalle province di Mosul e al-Anbar, rispettivamente nel Nord e nell’Ovest dell’Iraq, passano le armi destinate agli attivisti anti-Assad. Quello che accade a Damasco si riverbera su Bagdad. I sunniti iracheni stanno considerando l’ipotesi di costituire zone autonome sul modello curdo. L’amministrazione centrale, invece, dominata dagli sciiti, ha messo nel mirino gli avversari politici, facendo arrestare molti personaggi affiliati o semplicemente sospettati di simpatie baathiste, alcuni dei quali hanno cercato rifugio in Siria.

La paranoia sciita di un accerchiamento da parte dei sunniti, ispirati tanto dalle tendenze laiche del partito Baath quanto da quelle fondamentaliste di matrice salafita, è la conseguenza di una storia fatta di violenze e persecuzioni, durante l’era Saddam, oltre che della memoria della recente guerra civile. Allo stesso tempo, anche i sunniti vedono con sospetto le mosse degli sciiti, accusati di avere monopolizzato i servizi di sicurezza e di volere portare il Paese nell’orbita del nemico storico, l’Iran degli ayatollah.

L’idea di una partizione del Paese su base settaria, prospettata dallo stesso Mutlak, non è così peregrina. L’accordo governativo tra le parti è talmente debole che i ministeri della Difesa e degli Interni sono tuttora vacanti. Il previsto Consiglio Strategico Nazionale, l’organo in cui al-Iraqiya avrebbe dovuto condividere con al Maliki le linee guida dell’esecutivo, non è mai entrato in funzione. L’ex premier Allawi, sciita di stampo laico, alleato dei sunniti e leader di al-Iraqiya, è stato progressivamente marginalizzato dalle altre forze di matrice religiosa, influenzate dal potente imam Moqtada al Sadr.

Solo i curdi guidati da Massoud Barzani possono mediare tra le due comunità, ma il margine di manovra si restringe, anche perché la pressione americana si è inevitabilmente allentata e Teheran non rinuncia ad estendere la propria longa manus su Bagdad. Se il confronto tra sunniti e sciiti in Siria degenererà definitivamente in una guerra civile, l’Iran, già incalzato dalla comunità internazionale a causa del programma nucleare, rischierà di perdere l’unico alleato della regione, rendendo l’artificioso edificio iracheno una struttura ancora più instabile. 

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