L’argomento è di stretta attualità, oggi ne parla anche Peppino Caldarola sul suo blog: la sopravvivenza dei quotidiani politici, costretti a fare i conti con la stretta dei finanziamenti pubblici. Uno dei primi a “cadere” è Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista. Un giornalista di un’altra testata di sinistra – non me ne voglia Liberazione, ma più storica di loro – il Manifesto, oggi ha posto il tema all’attenzione del presidente del Consiglio Mario Monti nella consueta conferenza di fine anno del capo del governo. La domanda, in soldoni, è stata: che cosa ne sarà dei giornali che godono del finanziamento pubblico, vista la stretta che Palazzo Chigi ha già dato?
Bisogna riconoscere che Monti ha risposto. Dapprima con una dichiarazione che ad alcuni è parsa poco felice: «Rispondo alla domanda sul tema che le sta a cuore, ma sarebbe più corretto dire altro», sottintendendo dire portafogli, con quel ghigno che i cattedratici talvolta mostrano sapedo che nelle loro case l’acqua non entrerà mai. Ma questo è un dettaglio. Monti ha risposto e non se l’è cavata con una generica promessa. Ha sottolineato che il problema c’è e che bisogna studiare criteri di selezioni rigorosi e attendibili. Perché – ha ricordato – il contributo ai giornali è dato da tutti. Insomma, agli italiani il finanziamento va motivato con una buona ragione. Alcuni criteri Monti li ha citati: il numero di dipendenti per una testata, le copie effettivamente diffuse e vendute.
Ovviamente non stiamo qui a ripetere quel che ha scritto Caldarola, e non solo lui per la verità, sull’importanza del pluralismo nell’informazione. Più idee, più notizie, più opinioni vengono pubblicate, meglio è. Su questo non c’è dubbio. L’assottigliarsi delle voci – critiche o no – forse non è compatibile con la democrazia. Resta un punto cruciale: in base a quale criterio un quotidiano resta in vita e un altro no? E poi ce n’è un altro, che ovviamente è venuto in mente a noi in quanto giornalisti di un quotidiano on line: i cronisti che hanno scelto di svolgere la loro professione su Internet possono essere considerati giornalisti di serie B? Insomma, lunga vita al Manifesto, ma perché il glorioso quotidiano fondato da Pintor e dalla Rossanda sì e una testata on line no?
Certo, forse in questo caso ci si potrebbe appigliare al valore storico della testata, ma non so se possa bastare. A scanso di equivoci, ricordiamo che nello statuto de Linkiesta c’è scritto – come per il Fatto quotidiano, l’unico giornale che abbia davvero vinto la sfida col mercato – che siamo un giornale che non riceve alcun finanziamento pubblico. Ma io non sono un mercatista e non mi offendo se lo Stato dovesse ritenere il mio lavoro meritevole di un contributo. Vorremmo solo capire se per il nostro governo va tutelato in primo luogo il giornalista di carta stampata. Così, anche per programmare le nostre scelte future.