Doveva essere il summit cruciale per il futuro dell’eurozona. Rischia invece di essere un fallimento ancora prima di iniziare. Le bozze dei documenti del Consiglio europeo che sono emerse in queste ore tracciano già quello che sarà il piano salva-euro che l’Eurogruppo discuterà nei prossimi giorni. Sanzioni, controllo, unità. Sono questi i tre pilastri su cui si baserà il dossier che i ministri della Finanze della zona euro si troveranno davanti fra giovedì e venerdì. Ma non solo. L’introduzione del fondo European stability mechanism (Esm), il fondo salva-Stati permanente, avverrà a giugno 2012, con un anno di anticipo rispetto alle previsioni. La sua potenza di fuoco sarà superiore a 500 miliardi di euro e si spera possa placare il nervosismo dei mercati finanziari. L’obiettivo è solo uno: prendere tempo in vista della modifica dei Trattati. Eppure, sembrano già troppe le ombre in un piano che di innovativo ha davvero poco. Standard & Poor’s ha acceso i propri riflettori sull’eurozona. L’agenzia di rating americana, con la decisione di mettere sotto osservazione tutti i rating sovrani dei Paesi che adottano la moneta unica, ha ben interpretato l’umore degli investitori internazionali. Gli stessi che hanno abbandonato l’Europa mesi or sono per adottare una strategia d’investimento più conservativa.
Date le indiscrezioni che circolano, difficile che i capitali esteri possano tornare velocemente nel Vecchio continente. Francia e Germania sono i promotori di quella che, in teoria, doveva essere l’asso nella manica per l’Europa. Doveva, perché, a scanso di novità dell’ultim’ora, tutto il vertice sarà sul nuovo patto per l’euro, un pacchetto di regole di bilancio e sanzioni per chi le viola. Una sorta di Trattato di Maastricht più stringente sulla carta. I due parametri fondamentali saranno sempre deficit e debito che non potranno superare, rispettivamente, il 3% e il 60% del Prodotto interno lordo (Pil). Proprio come per Maastricht. Diverso invece il meccanismo sanzionatorio, che potrà contemplare anche l’estromissione dai diritti di voto. A vigilare sarà sempre la Commissione europea, la quale avrà il potere di inviare periodicamente un proprio team di funzionari in missione di controllo sullo stato dei conti pubblici nei Paesi più a rischio. Una soluzione simile a quella adottata dal Fmi con Grecia, Irlanda e Portogallo, i tre Paesi salvati negli ultimi 18 mesi. Sono ancora diverse le questioni irrisolte, a cominciare dalla Grecia. Il primo piano di salvataggio è datato maggio 2010. I 110 miliardi di euro che Ue, Bce e Fmi hanno messo a disposizione di Atene si sono dissolti con una velocità disarmante. Di pari passo, il deterioramento della condizione economica del Paese ha reso necessario un nuovo programma di sostegno, varato nello scorso luglio. In questa nuova edizione del salvataggio ellenico si è però deciso di introdurre, su base volontaria (ma non troppo), la partecipazione dei creditori privati, cioè banche e società finanziarie.
Una scelta che non solo non ha sortito gli effetti sperati, ma ha contribuito all’avvitamento della situazione degli istituti di credito europei, sotterrati dal peso del debito greco, 365 miliardi di euro. Nel pacchetto di misure che sta nascendo gli haircut, cioè il taglio al valore nominale delle obbligazioni detenute in portafoglio, sul debito dei Paesi oggetto di bailout resteranno volontari. Una scelta discutibile, ma che almeno conferma la volontà politica di accettare che possano avvenire altre ristrutturazioni del debito. C’è poi la Bce. L’indipendenza dell’istituzione guidata da Mario Draghi non sarà toccata, come voleva Berlino. Il suo mandato esclusivo rimarrà quello della stabilità dei prezzi. Stop. Non diventerà un prestatore di ultima istanza sul modello della Federal Reserve statunitense, né abbasserà i tassi d’interesse a zero per stimolare l’economia, come invece fatto dagli Usa. Quello che farà, invece, sarà utilizzare al massimo le armi che già possiede, come il Securities markets programme (Smp), il programma di acquisto di bond governativi, e l’Emergency liquidity assistance (Ela), cioè lo schema assistenziale di liquidità dato in seno alle banche centrali nazionali, come successo per Irlanda, Grecia e Belgio. Aumenteranno anche le Long-term refinancing operation (Ltro), ovvero le speciali linee di credito con le quali la Bce eroga liquidità alle banche.
Sarà cruciale il rapporto fra Eurotower e le altre banche centrali mondiali, grazie alle quali potrà aumentare gli swap in dollari per far ripartire un mercato interbancario europeo che si è cristallizzato. Irrisolta è anche la questione della crescita economica. La Commissione europea continua a rivedere al ribasso le prospettive di crescita del Pil nell’eurozona per il prossimo anno. «Difficilmente sarà evitabile una recessione», scrivono in coro gli outlook 2012 delle banche d’investimento. In un quadro così precario, senza stimoli per la crescita, con un credit crunch bancario già in atto e con lo spettro di un default sovrano, quello greco, che aleggia, pensare positivo è un esercizio lezioso e inutile. Le misure di austerity adottate dalla gran parte degli Stati europei non bilanciate da altrettante misure a sostegno della crescita. Senza quest’ultima, per l’Europa è una battaglia persa in partenza. Ancora da capire è l’appoggio esterno che potrà fornire il Fondo monetario internazionale. L’istituzione di Washington con a capo Christine Lagarde si è resa più volte disponibile, ma la sua potenza di fuoco non è abbastanza elevata per salvare l’intera eurozona.
Prima di tutto, deve essere completata la riforma degli Special drawing right (Sdr, i diritti speciali di prelievo), l’unità di conto del Fmi il cui paniere è composto da dollaro statunitense, sterlina inglese, euro e yen. In febbraio la Lagarde e i suoi tecnici valuteranno come ridimensionare il paniere inserendo il renminbi cinese. Fino a quando non sarà potenziata la struttura, il Fmi non potrà agire come vorrebbe. Il malessere dell’Europa non finirà presto. La crisi non è passeggera, è strutturale. Come tale va affrontata. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha affermato più volte negli ultimi mesi che «per uscire da questa crisi serviranno anni». È vero, ma non basteranno solo gli anni. Occorreranno scelte radicali, pesanti, impopolari. Occorrerà il totale ripensamento dell’eurozona stessa. Il problema è che il tempo a disposizione è sempre di meno.