Il prete di Scampia: “Al Sud non abbiamo né democrazia né libertà”

Il prete di Scampia: “Al Sud non abbiamo né democrazia né libertà”

Sono storie di antimafia civile quelle raccolte in “Antimafia senza divisa”, un ebook firmato da Luca Rinaldi. Si tratta di una raccolta di interviste, fra gli altri, a Pino Maniaci, Giulio Cavalli, Aldo Pecora, Don Aniello Manganiello, Christian Abbondanza e Pino Masciari.

Nell’introduzione si legge: «gli arresti e la repressione sono lo stadio finale del contrasto, quando ormai la cosiddetta frittata è stata fatta. Occorre oggi inoculare nella società il virus della legalità, non sempre facile da far girare in periodi di crisi economica, ma quanto mai necessaria per uscire da questa». La prefazione del libro, che raccoglie le vicende di uomini e donne che si sono scontrati con le mafie, è scritta da Mario Andrigo, sostituto Procuratore della procura di Vigevano.

Quello che proponiamo qui è l’intervista a Don Aniello Manganiello, per sedici anni prete a Scampia e in seguito sostituito “per avvicendamento”. Parlando del suo lungo periodo a Napoli, don Aniello dice: «L’impegno per la mia gente non era finalizzato alla mia visibilità e non lo sarà mai, ma solo funzionale alla lotta contro la Camorra per dare alla gente la possibilità di vivere in libertà». Quello che occorre sottolineare, secondo il prete di Scampia è che «finchè queste holding criminali, mafia, ’ndrangheta, camorra e altri, continuano a condizionare la vita economica, lo sviluppo industriale e imprenditoriale, io sono convinto che non possiamo parlare né di libertà, né di democrazia.

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Lei ha preso posizioni anche molto forti nei confronti dell’istituzione Chiesa, che riguardo al tema delle mafie si è mostrata sempre troppo tiepida e a volte purtroppo connivente
Ho fatto delle critiche perché vedo una Chiesa poco frequentatrice della strada, dove si incontra l’uomo con le sue sofferenze, i suoi problemi, la sua solitudine e le sue emarginazioni. Insomma vedo una Chiesa troppo spesso lontana dal tessuto connettivo umano. Provo a essere osservatore attento soprattutto del Meridione, un Meridione pieno di santuari, di chiese e di luoghi religiosi, ma con una compresenza di mafie e di organizzazioni criminali che commettono delitti efferati, che tengono in ostaggio i cittadini, che mortificano l’iniziativa privata, che impediscono il decollo delle economie locali. Ecco, osservando tutto questo io mi sono sempre chiesto dove è stata la Chiesa in questi secoli di fronte a questo malaffare, a questo strapotere. Rimango anche sconcertato del fatto che tre vescovi che combattono per la legalità, rischiando anche in prima persona, con conseguente scorta da parte dello Stato, siano poi settentrionali, mentre da parte di quelli meridionali spesso non arrivano neppure segnali alle comunità locali. Questi tre vescovi, che sono Nogaro, che è friulano, Riboldi di Milano e Bregantini di Trento, che dalla Locride è stato poi mandato a Campobasso. Io mi chiedo, ma i sacerdoti meridionali, dove stanno? Mi viene il dubbio che il clero al Sud si sia preoccupato esclusivamente di feste e processioni e non di realizzare quella beatitudine di avere fame e sete di giustizia. Sono stato molto critico in questo senso: vorrei una Chiesa più povera, più presente nella storia dell’uomo, più sul territorio e meno invischiata nelle strutture, meno ostaggio delle quattro mura della canonica. Insomma, una Chiesa più missionaria, come Gesù Cristo in giro per le strade della Palestina senza una casa, senza nulla, ricco solamente di fare la volontà del padre ogni giorno.

Quando e come è cominciata la sua esperienza di parroco anti-Camorra, se così possiamo chiamarla
Il 20 settembre 1994 arrivo a Scampia da Roma con tanta paura, avevo paura di quei territori, come avevo paura della stessa Napoli. Poi con in testa la frase di Edmond Burke “perchè il male trionfi, basta che gli uomini del bene si girino dall’altra parte”, e vedendo le costrizioni della gente di Scampia e il male della Camorra, ho deciso di non guardare dall’altra parte. L’aria che si respirava era quella della autentica sottomissione, si sentiva la paura di parlare e di dire come stavano le cose e di denunciare. Mi sono detto che come pastore non potevo curvarmi sulle mie paure, sulla mia privacy e sulla mia pellaccia, ma dovevo aiutare questa gente per provare a uscire da questa condizione. Questa convinzione ha messo all’angolo le paure e mi sono letteralmente scaraventato dentro questa realtà.

Una realtà fatta di storie sconvolgenti
Si in particolare mi ricordo quelle dei malati di AIDS, di uno in particolare. Si chiama Antonio ed è stato uno dei primi a interpellarmi dopo il mio arrivo, come hanno poi fatto tanti tossicodipendenti e famiglie bisognose. Poi c’è stato il primo scontro frontale con la Camorra: tre camorristi rubavano l’acqua dall’oratorio, allacciandosi sulla tubatura che serviva per innaffiare il campo di pallone. Prima di me nessun sacerdote aveva mai detto nulla, per paura pagavano e pagavano bollette di quattro o cinque milioni delle vecchie lire. Di fronte a questa ingiustizia mi sono ribellato immediatamente, pagare loro l’acqua con i soldi dei poveri era inaccettabile, così come è inaccettabile il pizzo nei mercati, i commercianti ricattati, lo spaccio di droga. Tutte queste ingiustizie gridavano vendetta al cospetto di Dio. Ovviamente la Camorra non è stata a guardare mentre Don Manganiello denunciava; e così sono arrivate minacce in seguito anche alle mie denunce pubbliche. Ricordo quella dopo una visita del programma televisivo Le Iene che fece un servizio sulla mia attività. In quella occasione mi si avvicinò un auto e due persone mi minacciarono pesantemente dandomi dell’infame, poi mi minacciarono di spararmi in mezzo alle gambe, e un’altra volta durante un processo un pentito rivelò per esempio che un clan aveva organizzato un piano per mandarmi via, o con le buone o con le cattive. Però mi sono sempre rifiutato di avere una scorta come mi suggerivano per stare in mezzo alla mia gente senza barriere. Se si vogliono educare le persone a denunciare e al mantenimento della legalità per liberarsi di questa cortina rappresentata dalle mafie bisogna non solo parlare, ma andare in mezzo alla gente e fare. Per cambiare la realtà bisogna rischiare sempre qualcosa. Poco o tanto bisogna rischiare, perchè la corruzione è forte, sia ai piani alti della politica sia al livello della cittadinanza e della municipalità.

C’è stato anche il dileggio dietro la sua storia, qualcuno insinuava il dubbio che lei si fosse costruito la fama di prete anti-camorra e che più del prete fosse intenzionato a fare lo show-man
Si, c’era chi diceva che le mie denunce e la mia opera erano tutta voglia di mettersi in mostra e basta e che la reputazione di prete anti-Camorra me la fossi cucita io addosso. Poi mi diedero anche del prete fascista vista la mia amicizia con Gianfranco Fini, insomma, uscì di tutto e di più. Meno male che poi la confessione del pentito in tribunale che parlò di minacce e provvedimenti dei camorristi nei miei confronti ha fatto in un certo senso giustizia alla mia persona. L’impegno per la mia gente non era finalizzato alla mia visibilità e non lo sarà mai, ma solo funzionale alla lotta contro la Camorra per dare alla gente la possibilità di vivere in libertà. Noi al Sud non abbiamo democrazia e libertà. Finchè queste holding criminali, mafia, ’ndrangheta, camorra e altri, continuano a condizionare la vita economica, lo sviluppo industriale e imprenditoriale, io sono convinto che non possiamo parlare né di libertà, né di democrazia.

Don Aniello ha tolto tanti ragazzi dalla strada, denunciato ingiustizie e dato una speranza in più a una comunità. Ma questo non interessa alla Chiesa, che per “motivi di avvicendamento”, dopo 16 anni la trasferisce a Roma.
Sono stati 16 anni che mi hanno cambiato la vita, il mio approccio con la società, con le varie realtà e le varie situazioni. Quindi per me è stata dura accettare questo trasferimento, dopo una esperienza come questa tra la povertà, tra i poveri, tra gente che vive di stenti ma che non accetta le proposte fascinose e ricche della Camorra. È stato veramente difficile accettare questa decisione, anche perché in questi anni ho visto i frutti del mio lavoro nella presa di coscienza da parte della gente, che è scesa anche per strada nel rione contro la Camorra. Per quanto riguarda i motivi, ufficialmente, come lei ha ricordato sono di “avvicendamento”, ma c’erano in realtà altre pressioni come quelle della curia napoletana che io avevo più volte attaccato insieme ad altri parroci perché li ritenevo troppo silenziosi, troppo assuefatti. In effetti sa, chi vive lì fa fatica poi a rendersi conto di quel che lo circonda. Chi viene da fuori invece nota molto di più le contraddizioni del territorio e questo è stato quello che ho fatto anche io, portando a galla anche all’interno della Chiesa il problema, andando contro l’assuefazione, ma anche suggerendo di non regalare i Sacramenti ai camorristi.

Ci sono le forze buone da cui ripartire?
Le forze buone ci sono e sono anche tante. Tanti giovani e tanti adulti. È ovvio che bisogna anche creare le condizioni: quando noi abbiamo a Scampia il 75% di disoccupazione capisce che diventa difficile parlare ai giovani di legalità. Diventa difficile far passare il messaggio che bisogna denunciare, di portare alla luce gli abusi della camorra perchè la camorra qui da anche da mangiare, fa da ammortizzatore sociale. Senza poi tenere conto di coloro che nelle forze dell’ordine rimane colluso con la rete della camorra vendendosi, riferendosi di indagini in corso, denunce e denuncianti. Povertà, disoccupazione e i grandi disagi economici delle famiglie sono la base per il proliferare degli affari malavitosi. Quindi serve un scuola che deve fare la sua parte fornendo alle giovani generazioni la possibilità di contrastare la camorra con scelte che vadano nella direzione contraria di quella presa dai camorristi che attraggono i giovani con facile denaro. Occorre il miglioramento delle condizioni economiche generali e da parte della Chiesa un appoggio per la cultura e maggior impegno sul territorio e nella quotidianità per dare alla gente la possibilità di continuare a sperare senza entrare in contatto con i clan.

Sul punto di una rinascita e di come dare speranza in questi quartieri, aveva sollecitato anche Roberto Saviano
Si, io ho fatto presente a Saviano che a me sta bene l’antimafia da professionisti della legalità e della cultura, ma l’anticamorra delle opere è sicuramente più incisiva, e con questa si può cercare di risollevare la vita delle persone. L’antimafia solo culturale purtroppo non serve a nulla, anche perchè al camorrista non gliene importa nulla della fiaccolata, del libro o dell’appello a favore di…, non hanno il livello e le categorie culturali per capire il valore di una protesta, di una denuncia pubblica o di un messaggio. Fin quando tu non li tocchi sui soldi e sugli interessi, facciamo un baffo alla camorra. Per questo volevo comunicare a Saviano l’importanza dell’anticamorra delle opere che lui forse si era un po’ dimenticato. Occorre ridurre sempre di più lo spazio di azione da “benefattrice”. Sembra un paradosso, ma la camorra in quelle zone si fa benefattrice, solo che poi vuole ovviamente qualcosa in cambio. Chi riceve dalla camorra deve essere pronto poi a a collaborare con loro. Insomma, vale come sempre la regola del do ut des.

E nel futuro di Don Aniello cosa c’è?
Intanto di finire l’anno sabbatico che finisce a febbraio del 2012. Sto pensando tantissimo al mio futuro e a cosa fare. Per esempio ci sono tanti amici che mi stanno dando input molto interessanti. Io vorrei realizzare qualcosa di concreto per gli ultimi, per i diseredati della società: pensavo a un centro di accoglienza, o anche una associazione sul territorio nazionale che punti all’educazione alla legalità, ma che possa creare nei vari territori delle risposte concrete, la cui esistenza si basi sulle sensibilità dei cittadini. Oggi realizzare un centro finanziato dal pubblico credo sia bene toglierselo dalla testa. Insomma ci vuole uno stile tipo Madre Teresa di Calcutta, che fa tanto bene senza avere nessun sussidio da parte dello Stato pensando agli ultimi della società e soprattutto ai bisogni primari delle persone.

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