Hamas festeggia il ventiquattresimo compleanno e le Brigate Ezzedine al-Qassam, braccio armato del movimento, snocciolano le cifre della «resistenza»: 11.093 razzi lanciati contro il Sud di Israele, 1.117 attacchi contro il nemico «sionista», di cui 87 attentati suicidi, 1.365 soldati di Tsahal uccisi ed altrettanti civili feriti, 1.848 «martiri» per la causa palestinese.
Nella Kateeba Square di Gaza il premier Ismail Haniyeh ha arringato la marea di bandiere verdi, rinnovando «l’impegno a liberare la Palestina dall’occupazione israeliana». Ma quello dello scorso 14 dicembre non è stato un anniversario come gli altri. In dodici mesi il profilo del modo arabo è stato sconvolto: via Gheddafi, via Ben Ali, via soprattutto il faraone Mubarak. Le rivolte popolari, favorite e amplificate dai social media, hanno messo in discussione certezze inveterate e la stessa questione israelo-palestinese, almeno nella prima, laica, fase della rivoluzione, è uscita dal vertice dell’agenda mediorientale.
Dal punto di vista retorico, l’organizzazione ha sempre presentato la primavera araba come una conseguenza delle decennali battaglie islamiste, in tutta l’area. Eppure le conseguenze di questi rivolgimenti epocali hanno messo in serio imbarazzo il movimento, ponendolo di fonte a scelte difficili.
Dal 2001 la leadership di Hamas è di stanza a Damasco, protetta e foraggiata dalla Siria e dall’alleato iraniano. Una scelta fatta dopo la cacciata dalla Giordania, nel 1999, quando re Abdallah fece arrestare alcuni capi dell’organizzazione, tra cui Khaled Meshal, accusandoli di minacciare, con le proprie attività, lo stesso trattato di pace tra Amman e Gerusalemme.
Il regime baathista, però, traballa, proteste e repressioni si susseguono dallo scorso marzo, Bashar al Assad è isolato, la Lega Araba ha sospeso la Siria e le pressioni per un regime change si fanno sempre più forti. Il movimento islamista vive un profondo dilemma: da una parte, non può schierarsi contro la primavera araba, espressione autentica degli umori popolari, dall’altra non può mollare il padrino Assad, pena il prosciugamento dei canali di finanziamento, come ha già fatto intendere l’Iran.
Damasco non è più una dimora sicura. Tuttavia, un eventuale trasferimento della leadership appare allo stato attuale più un wishful thinking occidentale che una prospettiva reale. Migliaia di palestinesi vivono ancora nei campi profughi siriani e Hamas si è sempre presentato come il loro rappresentante. Abbandonarli al proprio destino, nel momento in cui il Paese che li ospita scivola verso una guerra civile, alienerebbe al movimento molte simpatie, impedendogli di presentarsi come il campione della causa nazionale.
D’altronde, le opzioni in mano a Meshal restano limitate. Quella più ricorrente porta in direzione dell’Egitto. Il consiglio militare che gestisce la lunga transizione post-Mubarak lavora alla riconciliazione tra Hamas ed al Fatah ed ha mediato l’ultimo scambio di prigionieri tra il movimento islamista ed Israele, quello che ha portato alla liberazione del soldato Shalit. Hamas nasce da una costola dei Fratelli Musulmani, l’organizzazione creata al Cairo nel 1928. Ma i leader palestinesi hanno sempre goduto di grande popolarità e vasta autonomia, e non è certo che i vertici della Fratellanza gradiscano la presenza in patria di personaggi così carismatici.
D’altronde, il quadro politico egiziano è lungi dall’essersi stabilizzato e gli stessi militari potrebbe opporre un netto rifiuto al viaggio Damasco-il Cairo della nomenklatura islamista.
Un’altra possibilità è rappresentata dall’ambizioso Qatar dell’emiro al Thani, in prima linea nella sfida al regime di Assad, dopo avere già guidato il fronte arabo anti-Gheddafi. Doha sostiene da mesi molti movimenti islamisti, dai tunisini di Ennahda agli egiziani di Giustizia e Libertà, che hanno colto l’opportunità offerta dalla primavera araba per diventare protagonisti della scena politica. In questo caso, però, a manifestare la propria contrarietà sarebbero soprattutto gli influenti vicini del Qatar, in primo luogo l’Arabia Saudita, preoccupata delle conseguenze sulla stabilità del Golfo e terrorizzata dai legami tra Hamas e il nemico iraniano.
Qualche analista sostiene che la leadership in esilio potrebbe semplicemente riunirsi a quella di Gaza, ma in questo modo i margini di manovra si restringerebbero ed Israele avrebbe gioco facile nel tenere sotto controllo il movimento. Oliver Mc Ternan, direttore di Forward Thinking, suggerisce un’altra soluzione, il ritorno in Giordania: «Meshal e re Abdallah hanno pianificato un incontro. Inoltre, ci sono state altre aperture. Il neo premier giordano Khasawneh ha dichiarato che l’espulsione dei leader di Hamas è stato un errore giuridico e politico».
Il primo ministro ha fatto liberare alcuni prigionieri politici ed ha teso la mano nei confronti del Fronte di azione islamica, la branca giordana dei Fratelli Musulmani. Amman ha anch’essa un gran numero di rifugiati palestinesi e potrebbe assumere un ruolo ancora più importante nel districare la matassa arabo-israeliana.
L’ipotesi, al momento, resta improbabile. La presenza di Hamas renderebbe più instabile il Paese, appena sfiorato dalla primavera araba, che ha portato i contestatori a rivolgere i propri strali contro il governo, risparmiando la corona.
All’organizzazione non resta che attendere. Solo lo scivolamento definitivo della Siria verso una guerra civile la costringerebbe a prendere decisioni drastiche. Hamas è chiamata a fare professione di pragmatismo. Anche se la carta costitutiva recita ancora chiaramente quali siano gli obiettivi ultimi – la distruzione di Israele e l’instaurazione di uno Stato islamico – a Gaza si registrano alcune aperture, secondo gli attivisti per i diritti umani e gli stessi avversari politici. Piccole concessioni, come la possibilità per le donne di fumare narghilé in pubblico o di farsi acconciare i capelli da parrucchieri maschi, ma che danno l’impressione di un’atmosfera nuova.
La primavera araba impone un’aura di rispettabilità ai movimenti islamisti, che aspirano a responsabilità di governo. Da Ennahda ai Fratelli Musulmani il leit-motiv è quello di rendere presentabile l’offerta politica agli occhi dell’Occidente. Così anche Hamas, che dopo avere strappato ad al Fatah il controllo di Gaza ha imposto regole ispirate all’oscurantismo religioso, è dovuto andare a scuola di immagine.