I saldi sulle piazze europee continueranno anche nel 2012. Per questo sembra che la China investment corporation (Cic), il fondo sovrano cinese da 410 miliardi di dollari, aumenterà la sua dotazione di ulteriori 50 miliardi. L’indiscrezione, raccolta stamani dall’agenzia Reuters, non è stata confermata ma pare che Pechino sia in procinto di affidare al fondo maggiori risorse per far fruttare le riserve in valuta estera del Paese, stimate a 3.200 miliardi di dollari, di cui poco meno della metà in titoli Usa.
In realtà l’iniezione di liquidità da parte delle autorità cinesi sarebbe minore delle reiterate richieste di Cic, strumento nato nel 2007 che opera indipendentemente dalla banca centrale cinese, già dal marzo 2009, stando alle notizie che circolavano sui media locali, era alla ricerca di nuovi fondi per 100-200 miliardi di dollari da investire. La mossa fa parte di un piano più ampio per creare un nuovo veicolo da 300 miliardi di dollari controllato dalla Safe, l’ente che per conto dell’istituto centrale del Paese amministra le riserve in valuta estera. La dotazione finanziaria del suo braccio operativo, la Safe investment company, la piazza al secondo posto al mondo con 576,9 miliardi di dollari stimati, immediatamente dietro all’Abu Dhabi Investment Authority, che detiene asset per 627 miliardi di dollari, secondo la classifica del Sovereign Wealth Fund Institute.
La notizia suona interessante poiché Cic è stato più volte tirato in ballo nel corso dell’anno finanziario, sia come compratore del debito italiano sia come soggetto interessato a entrare nell’azionariato di Unicredit e non solo. Lo scorso 13 settembre i rumors che filtravano dal ministero del Tesoro, che aveva accolto una delegazione dei vertici del fondo, erano concordi nell’affermare un acquisto di titoli di Stato italiani. Indiscrezione che si scrisse fu pilotata dall’allora ministro Tremonti in vista dell’asta dei Btp del giorno dopo, pari a 7 miliardi di euro. Niente di più sbagliato: il team guidato dall’ex ministro delle Finanze cinese Liu Jiwei aveva invece puntato gli occhi sui ben più strategici asset industriali italiani. Al limite, era ipotizzabile uno scambio tra bond e quote nei bocconi più appetibili di via XX Settembre, cioè Eni ed Enel. La prima nell’ottica cinese sarebbe particolarmente appetibile per via della sua leadership libica. Nelle mani di Pechino ci sarebbe il 13% del debito italiano o comunque sia almeno un 4 per cento. Si tratta sempre di stime imprecise: le strategie economiche del Dragone sono top secret quanto i suoi segreti militari.
Il veicolo di Pechino non è sconosciuto nemmeno dalle parti di Piazza Cordusio. L’amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni, nel corso della presentazione dei conti a settembre 2011, non aveva confermato il coinvolgimento di Cic nell’aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro deliberato dalla banca, ma non aveva smentito i contatti con il fondo sovrano. L’istituto di credito, oltre a una complessa ricapitalizzazione, è impegnato anche nella rifocalizzazione del business come banca commerciale, e non più secondo il «tramontato» modello di banca universale, per usare le parole di Ghizzoni. Da inizio anno a oggi l’istituto ha lasciato sul terreno il 60% del suo valore di borsa, e oggi capitalizza poco meno di 14 miliardi di euro. Si vedrà.
Il manifesto delle intenzioni di Pechino è facilmente intuibile dall’editoriale sul Financial Times firmato da Liu Jiwei a fine novembre: «[…] la questione è: Da dove arriverà la nuova domanda? La risposta è spingere gli investimenti infrastrutturali. […]. Basta guardare alla Cina per capire gli obiettivi che possono essere raggiunti. […]. Nel 2008, in piena crisi finanziaria, il Governo varò un pacchetto di stimolo economico da 4 miliardi di renmimbi, con la gran parte degli investimenti nel comparto delle infrastrutture. Il risultato? La crescita economica aumentò dal 6,8% del 2008 al 10% alla fine del 2009».
Nell’ottica cinese, e non potrebbe essere altrimenti, la domanda si sviluppa con investimenti labour intensive. Stando alle previsioni per il 2012 di Goldman Sachs, il Pil del Dragone rallenterà leggermente la sua corsa dal 9,1 all’8,6 per cento, ma un incremento delle esportazioni verso l’Europa dal 3,8% del Pil nel 2011 al 4,1% per l’anno prossimo. Per SocGen, la sfida di Pechino nel 2012 sarà separare la sua crescita dalla domanda marginale di metalli, legati appunto ai settori delle costruzioni, a maggiore intensità di occupati. Anche per questo si cercano sbocchi e partnership all’esterno, come l’accordo siglato con l’Inghilterra per la realizzazione di infrastrutture tra cui una linea ferroviaria da Londra e il nord del Paese. Per questo Eni e Unicredit sono prede appetibili per placare la sete energetica del Dragone e la presenza in operazioni strategiche.
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