Più che una lotta contro il tempo, è una lotta contro i tempi. Tempi grami, onestamente. Nei quali – con fare proditorio – vorrebbero infilarsi anche i parlamentari d’ogni censo e colore, in modo da essere accomunati ai destini degli italiani mazzolati dalla manovra. E in questo modo immunizzarsi da ogni vaccino anti-casta che li porterebbe a perdere qualche modesto, ancorchè immondo, privilegio. Vi servirà in questi giorni, più che in altri periodi, una lettura attenta dei giornali alla ricerca di immancabili interviste con lorsignori che cercano di spiegare, giustificare, razionalizzare, interviste nelle quali potrete ritrovare sublimi accenti giustificazionisti. Da chi fa la spesa alla Coop a chi ha il suo bel mutuo da pagare, da chi racconta che cinquemila euro sono poca cosa (ma si può arrivare serenamente a quindicimila) a chi si sente davvero risorsa per il Paese e dunque in perenne conflitto con questo clima da caccia alle streghe. Tutti splendidamente compatti nella pur faticosa impresa di acchiappare il vitalizio.
In realtà, con questa artificiale operazione-trasparenza stiamo nascondendo ben altra verità agli italiani a cui, in fondo, interesserebbe davvero capire perché gli eletti della politica si sono rinchiusi in un castello che pare inaccessibile. Una prima riflessione potrebbe portarci sulla buona strada: se queste persone sono state strappate con estrema fatica alle professioni, a quella società civile di cui spesso ci si riempie la bocca, se davvero questi signori erano i migliori nei loro mestieri, che così a malincuore hanno lasciato (ma per il Bene del Paese si fa questo e altro), come mai oggi sono così riottosi a tornare nelle loro dimensioni professionali, trepidamente attesi da studenti, pazienti, clienti rimasti troppo a lungo orfani di sapienze acclarate? Una prima risposta, neppure tanto maliziosa, porterebbe a concludere che là fuori, nella vita civile, in realtà proprio nessuno li sta aspettando, essendone mediocre rappresentazione.
E il sospetto, dunque, si traduce in amara realtà: per molti di lorsignori il ritorno alla vita corrente appare come una tragica eventualità, dovendosi confrontare con il merito, la concorrenza, i saperi. Questo primo elemento di riflessione ci conduce al problema dei problemi, che è poi la selezione della classe dirigente (politica). E sgombra il campo da un equivoco che si perpetua – forse – da quando è nata la seconda Repubblica. Mentre un tempo non c’era neppure discussione su chi dovesse interpretare la cosa pubblica e se vi erano mestieri specifici, come c’erano (avvocati, professori, medici, ecc.), semmai si stemperavano felicemente nella parola «politico», che così diventava a sua volta un mestiere a tutto tondo, oggi questo parallelismo non tiene più. La tempesta di Tangentopoli, che ha spazzato via le vecchie formazioni, ha tracciato anche una linea ideale tra un prima e un dopo, consegnando alla storia italiana come insopportabilmente viziata, quell’idea di considerare il mandato parlamentare come una vera e propria professione. Per cui tutti sentirsi inevitabilmente «prestati» alla politica e non più eterna espressione. Nei «nuovi» partiti, si è così avvertita l’esigenza di restituire ai cittadini qualcosa della loro fiducia, pescando appunto nella società civile. Oggi si può tranquillamente dire che questo esperimento è tragicamente fallito.
In questa ricerca, i partiti non sanno da che parte cominciare. Né hanno ancora capito come si compone abilmente uno schieramento parlamentare. Si va così per suggestioni, magari anche contrarie che desta persino più impressione. L’esempio più scontato, ma anche più evidente, è la scelta di Massimo Calearo, falchetto di Confindustria nel nordest, pescato da un Veltroni in vena di prodezze. Ma ce ne sono molti altri. Lasciando perdere le scelte per via amicale, da sanzionare penalmente, si può spendere qualche parola sulla ricerca spasmodica del professionista acclarato, che dovrebbe dare lustro a una formazione politica. Bene, quando il soggetto in questione si fa convincere, ahilui, in quello stesso momento inizierà inesorabilmente il suo declino (politico e professionale). Una vita intera fatta di studi, di affermazioni, di eccellenze, entrerà nel perverso meccanismo della nomenclatura del partito. E da essa verrà inesorabilmente stritolata. Un altro esempio su tutti: perché il professor Ichino, le cui idee possono essere tranquillamente discusse, deve essere trattato all’interno del Pd con volgare sufficienza, quando nella vita normale era considerato una personalità di grande valore?
Come vedete, per le persone preparate la vita in un partito è molto dura. E francamente, il gioco non vale la candela. Non mancano le eccellenze in Parlamento, per carità, ma molto presto perdono entusiasmo e rimpiangono la vita «fuori» di lì. Nella media, però, il livello è molto modesto ed è paradossale che proprio nel luogo istituzionalmente più «alto», il merito, le storie personali, i percorsi professionali, non abbiano dignità di appartenenza.
Tutto ciò ripropone una domanda da primissima Repubblica: è da rivalutare il mestiere del politico? E ancora: deve esistere il mestiere del politico? In attesa delle risposte, sappiamo già che alla fine di questa legislatura il Parlamento ci restituirà i mediocri della società.