L’eredità di Havel: “Combattete il pensiero unico”

L’eredità di Havel: “Combattete il pensiero unico”

Con un colpo di teatro meno metaforico del solito, la Storia, nel 1990, chiamò a dirigere la Cecoslovacchia postcomunista (e poi, dopo la secessione di velluto, la Repubblica Ceca, fino al 2003) un uomo che aveva una certa confidenza col palcoscenico, il drammaturgo Václav Havel.
Alla Praga che usciva da un quarantennio di dittatura, Havel dette un orientamento anticomunista, da destra moderata e liberale, entusiasta dell’economia di mercato e filo-americana. Spinse per l’ingresso della Repubblica Ceca nella Nato (che avvenne nel marzo del 1999) e fu tra i principali sostenitori della guerra in Kosovo.

1990, Václav Havel guarda sulla Bbc uno speciale a lui dedicato

La sua popolarità scese abbastanza a picco nel corso dei tredici anni della presidenza, come quasi sempre succede a chi è stato un eroe prima di prendere il potere. Borghese di origine (i genitori possedevano i prestigiosi studi cinematografici Barrandov), dopo gli anni da dissidente sotto il regime filosovietico di Gustáv Husák si fece ridere dietro per certi atteggiamenti da rock star viziata, come quello di spostarsi tra gli enormi corridoi del palazzo presidenziale su una moto giocattolo da ragazzini.

18 agosto 1990, Havel riceve al Castello di Praga i Rolling Stones che stanno per suonare allo stadio Strahov, per il loro primo concerto in un Paese ex comunista
Eppure, proprio sul potere, nella sua attività da drammaturgo e scrittore (per il manifesto di protesta Charta 77 scontò cinque anni di carcere) aveva scritto pagine universali, non destinate a perdere forza con l’allontanarsi della memoria del comunismo e dell’anticomunismo.
Inventò (con l’aiuto del fratello, il matematico Ivan M. Havel) lo Ptydepe, una lingua di finzione (un po’ come la neolingua di Orwell) che in ceco è rimasta espressione buona per indicare l’incomprensibilità del linguaggio burocratico (persino più – a Praga! – dell’aggettivo “kafkiano”). Lo Ptydepe (utilizzato nella pièce Il memorandum, del 1965) era una lingua “costruita scientificamente” e a “codificazione entropica”, senza nessuna parentela col linguaggio naturale, basata sulla regola “del 60% di differenziazione di ogni parola dalle altre quanto a vocali e consonanti contenute”. Il che portava a parole lunghissime, la più lunga, di ben 319 lettere, indicava il vombate, un marsupiale australiano. Insomma, per farla breve, una satira feroce, una critica della mistificazione della realtà da parte del sistema, che stravolgeva tutto quello che più era naturale, come in questo caso la lingua madre. O, nel caso della teorizzazione di Havel del concetto di post-totalitarismo, la libertà di pensiero e lo spirito critico.

Havel nel 1975 nel villaggio di Hrádeček, suo luogo di ritiro preferito, dove ha scelto di morire
Scrive Havel ne Il potere dei senza-potere (1975): «Fra le intenzioni del sistema post-totalitario e le intenzioni della vita c’è un abisso profondo. Mentre per sua natura la vita tende al pluralismo, alla varietà dei colori, a organizzarsi e costituirsi in modo indipendente, tende insomma, a realizzare la propria libertà, il sistema post-totalitario esige monolitismo, uniformità, disciplina; mentre la vita tende a creare strutture “inverosimili” sempre nuove, il sistema post-totalitario le impone le “situazioni più verosimili”. Queste intenzioni del sistema rivelano che la sua natura più peculiare è di ritornare a se stesso, di essere sempre più saldamente e incondizionatamente “se stesso” e di allargare pertanto sempre di più il proprio raggio d’azione.
Questo sistema è al servizio dell’uomo solo nella misura in cui ciò è indispensabile perché l’uomo sia al servizio del sistema; tutto “il di più”, quindi tutto ciò con cui l’uomo va oltre la sua condizione predeterminata, viene valutato dal sistema come un attacco a se stesso, e a ragione: ogni trascendenza di questo tipo – come principio – lo nega».

Così, oltre il totalitarismo (che ha come obiettivo la pura e semplice – e genuinamente violenta – conservazione del potere nelle mani di un gruppo dominante) c’è il post-totalitarismo, che per conservare quel potere spaccia gli interessi del gruppo dominante per realtà oggettiva, immutabile e indiscutibile. Tanto da rendere scientifica pure la lingua, un gergo incomprensibile, sia esso lo ptydepe, il burocratese stretto dei governi filosovietici, o la lingua ipertecnica dell’alta finanza che oggi tanto terrorizza coi suoi spread e suoi swap.

1990, località Poříčí (vicino a Trutnov), manifesto di Václav Havel in bacheca
Scriveva ancora Havel nel 1975: «La totale umiliazione dell’uomo viene contrabbandata come sua definitiva liberazione; l’isolamento dalle informazioni viene chiamato divulgazione; la manipolazione autoritaria è chiamata controllo pubblico del potere, e l’arbitrio, applicazione dell’ordinamento giuridico; il soffocamento della cultura si chiama suo sviluppo, la pratica sempre più diffusa della politica imperialista viene spacciata come sostegno degli oppressi; la mancanza di libertà di espressione come la forma più alta di libertà; la farsa elettorale come la forma più alta di democrazia; la proibizione di un pensiero indipendente come la concezione più scientifca del mondo; l’occupazione viene spacciata per aiuto fraterno. Il potere è prigioniero delle proprie menzogne e pertanto deve continuamente falsificare. Falsifica il passato. Falsifica il presente e falsifica il futuro. Falsifica i dati statistici. Finge di rispettare i diritti umani. Finge di non fingere. L’uomo non è obbligato a credere a tutte queste mistificazioni, ma deve comportarsi come se ci credesse, o per lo meno deve sopportarle in silenzio o almeno comportarsi bene con quelli che con esse operano. Pertanto è costretto a vivere nella menzogna. Non deve accettare la menzogna. Basta che abbia accettato la vita con essa ed in essa. Già così ratifica il sistema, lo consolida, lo fa, lo è». 

14 dicembre 1990, Havel si bagna i piedi nell’Atlantico durante un viaggio in Portogallo

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