Quest’Europa con la sua moneta e il suo peso indefinito eppure così stringente ci sta apparendo in queste settimane come una severa e ingombrante “matrigna”. Eppure più che mai si va configurando come quel “vincolo esterno” che obbliga un Paese disordinato e approssimativo come l’Italia a riaggiustarsi e a fare tutti insieme quei “compiti a casa” da lungo tempo sempre rimandati.
Un “vincolo esterno” che è arrivato al punto di far saltare un governo scelto dagli elettori e mai sfiduciato nelle sedi parlamentari per cedere il passo alla squadra di “tecnici” del professor Mario Monti, l’unico che godeva e gode della fiducia incondizionata delle istituzioni comunitarie. E le scelte dolorose e impopolari che questo esecutivo è costretto a prendere finiranno forse per salvare l’economia e i conti pubblici ma anche a far perdere quella stima preventiva e quell’acritica adesione all’ “idea di Europa unita” che ha sempre prosperato in grande maggioranza nel sentire comune del nostro Paese.
Fin dalle prime votazioni a suffragio universale per il Parlamento Europeo (1979), infatti, tutti i sondaggi e le ricerche sociologiche davano il nostro come il Paese più “europeista” dell’intero Continente, con un consenso generalizzato vicino all’80 per cento della popolazione. Un primato di fiducia nell’”idea di Europa” che non aveva nessun riscontro altrove e che, con ironia, veniva ripetutamente motivato come inversamente proporzionale alla sfiducia che in Italia si aveva dei governanti di qualsiasi colore e in sostanza dell’insieme della stessa classe dirigente del Paese.
Come se il sogno degli “Stati Uniti d’Europa” (come si immaginava dai profeti negli anni bui del Secondo conflitto mondiale) potesse far superare i limiti e le mediocrità nella guida dell’Italia che era abituata, per la sua secolare civiltà, ad essere per natura e cultura aperta all’incontro e a farsi comunità superiore insieme ai popoli vicini. Una sensibilità collettiva e maggioritaria che non si è mai perduta nel sentire popolare durante i lunghi decenni della faticosa e lentissima integrazione istituzionale.
Tuttavia l’entusiasmo dei sognatori non si è mai accompagnato alla prosaica concretezza dell’attenzione quotidiana sui contenuti del processo in atto, anche dopo i Trattati costitutivi di Maastricht (1992) e l’ingresso, un decennio fa, nella moneta unica. Così da rendere forse più costosa e talvolta meno conveniente all’interesse nazionale molte delle scelte codificate poi nella normativa comunitaria : anche perché le trattative con i partners erano affidate non solo agli sherpa ma gestite in gran parte dall’alta burocrazia dei funzionari. La politica era spesso assente e non di rado completamente distratta, assorbita com’era nel gioco di potere quasi esclusivamente casalingo.
In realtà oggi tutta la materia regolata dalle leggi è prevalentemente (circa il 70 %) guidata dal diritto europeo e comunitario. I trattati, le direttive e le altre norme di fonte europea sono stati fatti propri dalle legislazioni nazionali, attraverso la ratifica parlamentare (per l’Italia in doppia battuta, dato il bicameralismo perfetto). E molto spesso, se non nella stragrande maggioranza dei casi, la legittimazione nazionale è avvenuta senza dibattito, non solo degli ambiti politici, ma pure della pubblica opinione. Infatti l’informazione più diffusa sembra appassionarsi quando da Bruxelles si fissa il diametro delle pesche o la curvatura delle banane. E tuttavia le colpe e il provincialismo della comunicazione al riguardo vanno spartite a metà con il Palazzo romano della politica.
Se è permessa la narrazione di un vecchio cronista, chi scrive rivendica di aver chiesto negli anni a diversi parlamentari di tutti gli schieramenti le ragioni di questa inscalfibile insensibilità verso il “prodotto” legislativo europeo che si subiva acriticamente. La confessione assolutamente bipartisan (o tripartisan ) era convergente e univoca: “Vedi, – era la risposta – sai che a dicembre c’è la solita tumultuosa maratona parlamentare con la votazioni sulla legge finanziaria italiana, carica di emendamenti, di pressione delle lobbies, di tutela dei piccoli interessi dei territori singolarmente rappresentati. Il voto finale avviene sotto Natale, con i deputati che restano in aula con la valigia in mano pronti a partire per le vacanze”.
“E quando il rosario infinito delle votazioni è concluso e si è frementi per la fuga e il ritorno a casa, i Presidenti delle Assemblee bloccano tutti con il dovere di ratifica delle direttive europee, ratifica che deve essere attuata entro il 31 dicembre di ogni anno. In quelle condizioni di spirito e di stanchezza si vota di tutto, al buio, pur di fare in fretta. E la maggior parte della normativa comunitaria è passata così. Però anche voi dell’informazione ve ne siete sempre fregati…”.
Da qualche anno (e cioè dalla legge Buttiglione del 2005) la materia viene raggruppata nella cosiddetta “Legge Comunitaria” che Camera e Senato affrontano con qualche riguardo in più. E’ accaduto anche stavolta (ma nel consueto disinteresse generale). Infatti la “Legge Comunitaria” ha avuto il “via libera” definitivo dal Senato mercoledì 30 novembre, recependo circa 23 direttive e regolamenti normativi europei, con lo stralcio però (come aveva già fatto la Camera) del punto relativo alla “responsabilità civile dei magistrati” (e alle relative sanzioni), decisione presa per non urtare la suscettibilità delle toghe.
Piaccia o non piaccia l’accoglienza dell’Europa e delle sue ormai centomila pagine del “corpus” normativo comunitario è avvenuta in gran parte in queste forme : il nostro “europeismo” è un nobile sentimento, mentre magari per altri partners è una difesa legittima di corposi interessi. Forse è il caso di chiedersi se è ancora il caso di continuare ad andare avanti così…