Martedì 27 dicembre il vice-presidente iraniano Mohammad-Reza Rahimi ha annunciato che l’Iran è pronto a bloccare lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico all’Oceano Indiano, se gli Stati Uniti e parte dell’Occidente imporranno nuove sanzioni economiche a Teheran, toccando anche il settore petrolifero. Per Hormuz transitano ogni giorno circa 15,5 milioni di barili di petrolio al giorno, pari a circa il 18% del consumo mondiale di greggio – ma pari a un terzo del totale di petrolio trasportato per nave al mondo.
L’annuncio è parso particolarmente credibile, poiché il sabato precedente la marina iraniana aveva iniziato un’esercitazione militare di dieci giorni nelle acque internazionali a Sud di Hormuz. Nell’occasione, il governo si era premurato di far apparire l’ammiraglio Habibollah Sayari in televisione, il quale aveva descritto le manovre con tanto di cartina e bacchetta. Alcuni giorni dopo, il personaggio ha aggiunto che «chiudere lo stretto per le forze armate iraniane è davvero semplice o, come diciamo in Iran, più semplice di bere un bicchier d’acqua».
Come possiamo interpretare questa improvvisa sete iraniana per i bicchieri d’acqua? Tutte le carte geopolitiche sembrano giocare a sfavore di Teheran. L’embargo economico è stato deciso dagli Stati Uniti perché l’Iran starebbe portando avanti il proprio programma nucleare militare, e la ritorsione commerciale sembra l’unica strada possibile, prima di un intervento armato di qualsiasi tipo. La risposta iraniana sarebbe altrettanto dirompente: privare il mondo dei 15,5 milioni di barili al giorni di Hormuz sarebbe catastrofico, in un periodo di crisi come quello attuale, con un barile è già alto.
Eppure, spesso noi occidentali commettiamo l’errore di pensare che tutte le azioni dell’Iran siano rivolte alla politica estera, quando invece rispondono a ragioni schiettamente interne. Questa nostra visione parziale rischia di far apparire le politiche di Teheran come “irrazionali”, mentre dovremmo considerare che la priorità iraniana è domestica, prima di essere internazionale. Alcuni episodi degli ultimi giorni, non ultimo l’indecente assalto all’ambasciata britannica, denota che lo scontro di potere interno non è ancora affatto risolto, dopo l’Onda Verde del 2009.
Tentare azioni suicide come inutili vandalismi a sedi diplomatiche, o operazioni militari degne di regimetti anni Trenta, hanno il solo scopo di rinsaldare il potere di chi le ha decise. Chi governa i riservisti Basij – o una particolare fazione all’interno degli stessi – ha dimostrato il proprio potere assaltando l’ambasciata inglese. Formalmente, i militari dovrebbero essere controllati dalla guida suprema Ali Khamenei: a essi sono affidati compiti prevalentemente diretti all’estero, diversi da quelli domestici delle Guardie Rivoluzionarie. Le manovre potrebbero essere una dimostrazione di forza di Khamenei, o delle fazioni che attualmente hanno in pugno i militari.
L’ammiraglio iraniano Habibollah Sayari
Ci potrebbero essere, però, spunti di razionalità anche in ambito di politica estera. Non è un caso che le misure commerciali occidentali contro il regime teo-militare iraniano siano imposte oggi, e non siano state introdotte due anni fa, quando avrebbero avuto molto più senso. La differenza determinante è che oggi il mondo si può permettere di rinunciare al petrolio iraniano (circa 2,4 milioni di barili al giorno), vista l’entrata in produzione dell’Iraq e il rapido ritorno libico.
L’Iran sta vedendo sciogliersi la propria posizione geostrategica. Dipende dal petrolio, ma anche dalla politica. Le rivolte arabe hanno portato alla caduta dei regimi a maggioranza sunnita (Tunisia, Libia, Egitto), mentre non hanno funzionato nei regimi dove solo la guida è sunnita e dove sono state condizionate dalle minoranze sciite (parte occidentale dell’Arabia Saudita, Bahrain, Siria). Nei paesi sunniti hanno preso il potere governi militari (con la parziale eccezione della Tunisia). Alla fine, l’Iran è stato messo all’angolo.
Tra petrolio e rivolte, il regime teo-militare iraniano si sta giocando il tutto per tutto. La bomba – vera o presunta – è l’ultima carta che può giocare. La situazione è instabile, ma alla fine è indice di un dato essenziale: il sistema di potere sta vacillando. Ma è proprio in queste fasi che i regimi vivono gli anni più convulsi e violenti.
*Docente di economia e politica presso l’Università di Potsdam e Senior Fellow di bigs-potsdam.org e autore de “La Guerra del Clima – Geopolitica delle Energie Rinnovabili”, Francesco Brioschi Editore