«L’Italia non rischia, i mercati non la puniranno». Era il 16 dicembre 2010, un anno fa. Il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, con le sue dichiarazioni faceva capolino sulla prima pagina del Corriere della Sera. In una lunga intervista spiegava perché l’Italia non sarebbe entrata nella spirale della morte in cui erano piombate prima la Grecia e poi l’Irlanda. Il Portogallo, infatti, non era ancora stato salvato. Il focus dei mercati finanziari era sulla Spagna e in Italia si discuteva più del Terzo polo di Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini che del rischio bailout. Eppure, in 12 mesi è cambiato tutto.
«Dal punto di vista politico-finanzario non vedo alcun motivo perché l’Italia possa venire punita dai mercati. Soprattutto adesso si è allontanata la prospettiva di una crisi di governo. Sono stati fatti notevoli sforzi per riportare in ordine i conti pubblici». Così Juncker, parlando di Roma. In realtà, il debito pubblico nel 2010 aveva già segnato un incremento significativo, passando dai 1.763,9 miliardi di euro di fine dicembre 2009 ai 1.843,2 miliardi di un anno fa. In rapporto al Pil, l’indebitamento passò dal 115,9% del 2009 al 118,6% fatto segnare nel 2010. Meglio non è andato per il coefficiente deficit/Pil, che misura il rapporto fra entrate e uscite in un dato anno. Secondo i dati diramati in maggio dalla Commissione europea, nel 2010 il deficit è stato del 5,3%, in linea con quello dell’anno precedente, quando era stato registrato il 5,4 per cento. Smentite quindi le previsioni, che vedevano un deficit sotto quota 5% per l’anno scorso. Nel 2011 Roma, sempre secondo le stime della Commissione Ue, segnerà un deficit del 4%, mentre l’indebitamento supererà la soglia del 120%, fermandosi a quota 120,3 per cento.
Dati alla mano, difficile pensare che Juncker potesse avere ragione. Quello che è successo all’eurozona, e all’Italia in particolare, a cavallo di aprile e settembre potrebbe entrare nei manuali di storia economica. Al crescere dell’incertezza politica interna e della mancanza di riforme, i Money market fund statunitensi (Mmf), storico pilastro della liquidità mondiale, hanno iniziato a sterilizzare liquidità dall’Europa. Forte è stata la flessione per il comparto italiano, con i titoli di Stato di Roma in forte pressione. Un anno fa il rendimento del Btp decennale era al 4,66%, mentre alla chiusura di ieri è stato del 6,592% (benchmark Bloomberg, quello di Thomson Reuters, invece, segna il 7,032%, ndr). Di pari passo lo spread, cioè il differenziale di rendimento, fra i titoli decennali italiani e quelli tedeschi è passato dai 162 punti base di un anno fa ai 474 di ieri (benchmark Bloomberg, quello di Thomson Reuters, invece, segna 517 punti base, ndr), con un picco di 575 punti. Grazie a queste performance, la parola spread è diventata di uso comune.
Se non fosse intervenuta la Banca centrale europea (Bce) sarebbe stato anche peggio. Jean-Claude Trichet prima e Mario Draghi dopo hanno sostenuto il debito pubblico italiano tramite le armi che avevano a disposizione. Largo è stato l’utilizzo del Securities markets programme (Smp), lo speciale programma di acquisto di titoli di Stato da parte dell’Eurotower. L’intervento della Bce è stato tempestivo, in agosto la prima operazione Smp diretta sull’Italia, ma questo non è bastato per ripristinare la fiducia dei mercati nei confronti di Roma. I fondi del mercato monetario hanno continuato a ritirare la loro liquidità dall’Europa, lasciando a secco sia le banche francesi sia quelle italiane, che hanno dovuto aumentare i propri depositi presso la Bce, fino a toccare livelli analoghi a quelli del dopo crac Lehman Brothers.
Le parole di Juncker erano sicure e rassicuranti. Eppure, qualcosa non ha funzionato. Il governo guidato da Silvio Berlusconi era atteso alla prova delle riforme già un anno fa e ha fallito. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha preferito tenere dritta la barra della spesa pubblica, operazione riuscita in parte, ma è stata dimenticata la parte a favore della crescita economica. Infatti, complice anche la crisi dell’eurozona, diventata ormai sistemica, la recessione è dietro l’angolo. Difficilmente, però, Juncker si sarebbe immaginato di ritrovarsi un anno dopo le sue affermazioni al Corriere della Sera con il rischio di un collasso dell’euro.
Il Consiglio europeo del 21 luglio scorso doveva essere il turning point della crisi. Invece, l’ha acuita. Con l’introduzione della partecipazione dei creditori privati alla ristrutturazione del debito ellenico, le banche europee sono state costrette a pesanti svalutazioni. Non è un caso che sia ancora in corso la discussione fra la lobby bancaria Institute of international finance (Iif), governo greco e la troika composta da Bce, Ue e Fondo monetario internazionale (Fmi). Prima del prossimo febbraio, quindi a quasi due anni dalla richiesta formale di sostegno finanziario da parte di Atene, non si saprà quanto sarà pesante l’haircut, il taglio del valore nominale dei bond detenuti in portafoglio. Una misura, quest’ultima, che inciderà anche sulle banche italiane, esposte per circa 6 miliardi di euro alla Grecia, peggiorando il credito per imprese e famiglie.
Il governo di Mario Monti non era ancora all’orizzonte, un anno fa. Juncker ricordava che la stabilità politica italiana era sicura, ma l’avvitamento della crisi, complice il contagio ellenico, ha obbligato un repentino cambio di programma. Del resto, 12 mesi fa non si sarebbe mai pensato che l’Italia potesse chiedere un aiuto finanziario al Fmi e invece, 365 giorni dopo, questa potrebbe essere una soluzione per alleviare la tensione che avrà Roma il prossimo anno, quando dovrà collocare debito pubblico per 440 miliardi di euro.
C’è tuttavia un altro aspetto che lascia interdetti. Parlando della situazione dell’eurozona, Juncker si diceva «sicuro» che i mercati finanziari avrebbero colto il messaggio che, adottando le riforme necessarie, i Paesi aderenti all’euro sarebbero stati al sicuro. «Si ribadirà che i dati fondamentali sono migliori che in Usa», spiegava Juncker, rimarcando anche il fatto che l’unica via per il futuro sarebbe stata quella degli eurobond, promossi anche dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ancora oggi la discussione è aperta, nonostante la Germania di Angela Merkel abbia ribadito, anche all’ultimo Consiglio europeo, che non è la soluzione alla crisi. I summit europei si susseguono, le parole pure e di vie d’uscita, almeno per ora, nemmeno l’ombra. Eppure, solo un anno fa, sembrava tutto tranquillo. Parola di Juncker.