Il governo Monti incassa la fiducia della Camera con il voto favorevole di 495 deputati. Maggioranza schiacciante – e l’esito del voto è talmente certo che al momento della proclamazione in Aula non c’è neppure un esponente del governo – ma in discesa. Esattamente un mese fa il governo aveva ottenuto la fiducia a Montecitorio con 556 sì e 61 voti contrari. A dissociarsi erano stati solo la Lega Nord e i deputati di centrodestra Alessandra Mussolini e Domenico Scilipoti.
Stavolta i no aumentano, e c’è qualche assenza pesante: come quelle di Giulio Tremonti e di Paolo Romani, ex ministro berlusconiano recentemente incaricato da Corrado Passera di fare l’emissario del suo ministero in Iraq e Afghanistan. Trenta giorni (e una manovra) dopo, Monti perde una sessantina di preferenze.
Un problema politico e di immagine: anzi, estetico secondo il segretario Pdl Angelino Alfano che, in vista del voto di stasera che si volgerà attorno alle 20 ha mandato a tutto il gruppo parlamentare un sms: “Si raccomanda la massima presenza al voto finale, per ragioni politiche ed estetiche”.
Intanto, voltano le spalle al governo anche il gruppo dell’Italia dei Valori, il Pdl Giorgio Stracquadanio, i due deputati del Sudtiroler Volkspartei, i tre esponenti di Noi Sud. Ma le dissociazioni più rilevanti sono quelle dei tanti parlamentari che hanno votato sì alla fiducia per spirito di partito. Ma ormai non credono più al progetto del governo tecnico.
Perché ufficialmente da oggi la maggioranza si salda sull’asse Pdl-Pd-Terzo Polo. In realtà già nell’immediato futuro Monti rischia di avere qualche problema di numeri. «Adesso votiamo a favore, ma non credo che questo governo duri ancora molto». Così l’ex premier Silvio Berlusconi si sarebbe rivolto ai suoi mentre, dai banchi della Camera, seguiva le procedure di voto. Ed è proprio l’appoggio del Pdl che rischia di venire meno. La maggior parte dei deputati berlusconiani oggi hanno votato senza troppa convinzione, spesso con disagio. In alcuni casi in aperta contraddizione con la propria volontà. «Al partito questa manovra non piace – spiega un deputato Pdl in Transatlantico – lo sanno tutti. Noi siamo costretti a votarla perché i vertici hanno deciso così». Un collega appena uscito dall’Aula conferma: «Fino all’ultimo momento sono stato tentato di votare no. Alla fine ha prevalso il senso del dovere. Per carità, questa manovra è necessaria, ma è un provvedimento che poteva fare chiunque. E se Berlusconi avesse ascoltato il nostro consiglio e avesse fatto un passo indietro la scorsa estate, saremmo ancora al governo».
Rientrano i malumori nel Pd. In questi giorni alcuni deputati democrat avevano preso in considerazione l’ipotesi di votare contro la fiducia. O, in alternativa, di astenersi per dare un segnale della propria insofferenza. Erano a rischio i voti di Antonio Boccuzzi, Stefano Esposito. Addirittura dell’ex ministro Cesare Damiano. Alla fine gli uomini di Bersani votano compatti per il sì. Ma solo perché ieri il segretario ha incontrato i suoi rassicurandoli su alcuni temi. Primi tra tutti l’impegno del partito a tenere alta l’attenzione su liberalizzazioni e welfare.
Insomma, coma spiega in Aula il capogruppo Dario Franceschini prima del voto: «Avremmo voluto di più, ma continueremo la nostra battaglia per la crescita e la giustizia sociale. Il cammino comincia e non finisce con questa manovra. Noi saremo dentro questo percorso, soprattutto come voce di quegli italiani che non hanno più voce». Eppure nel Pd qualcuno sottolinea come il voto di oggi abbia, di fatto, spaccato il centrosinistra. Da una parte il partito di Bersani, dall’altra l’Italia dei Valori. E questo per l’ex ministro Arturo Parisi «è la prova dell’inconsistenza della pretesa di chi, nel momento della crisi berlusconiana, descriveva il centrosinistra come una alternativa di governo pronta alla vittoria».