Lo spread sui Bund ha rivelato la debolezza della nostra economia e della nostra finanza pubblica. Ma perché adesso, perché solo da questa estate il mercato ha decretato la pericolosità di squilibri che da tempo avrebbero dovuto essere noti? Quali debolezze sono emerse, che non fossero già prima conosciute? La verità è che la crisi ha un’origine esterna a noi, insieme a una più vicina, che ci riguarda, e la cui natura va analizzata con cura, fuori dagli stereotipi.
L’origine immediata dell’aumento dello spread è all’interno della crisi del debito iniziata nel 2008 con Lehman: rischia il fallimento la Grecia, e cade così un duplice tabù, che un Paese dell’Ocse non può fallire, e che tantomeno può fallire un Paese dell’euro. Il sistema dell’euro, sottoposto a questa torsione, rivela la sua debolezza: l’Italia è too big to fail, ma anche troppo grande per essere salvata. La governance europea è messa di fronte all’evidenza della propria inefficacia, di fronte a un problema inedito per qualità e dimensioni. È l’avvio di un possibile circolo vizioso. Questo è il fronte esterno, che ha fornito l’innesco.
Ma in questo macroscenario che cosa imputano per davvero i mercati all’Italia, per averla messa al centro del mirino, punita più della Spagna? Qui le diagnosi si sono divise, creando le premesse per la babele delle terapie, che si è rivelata piuttosto nociva alla salute del malato. È necessario fare il punto con un minimo di distacco.
In un clima politico interno e internazionale che ha fatto convergere da più punti motivi di drammatizzazione dei problemi del nostro Paese, l’elenco delle malattie ritenute responsabili della crisi dello spread ha finito per coincidere con l’intera gamma dei mali italiani. Il difetto di credibilità del governo ha aggiunto elementi alla lista dei capi d’accusa, mentre avrebbe dovuto sottrarne. Si sono riaccreditati gli stereotipi di un’Italia sprecona, inaffidabile e inconsapevole. Si sono riaperte vecchie ferite ideologiche, acuite fratture e divisioni. E si sono affastellate le manovre correttive, senza coerenze, nel segno dell’improvvisazione e della risposta a pressioni esterne. Si sono sommate richieste, condizioni, pretese, ironie, cadendo nella tentazione di sfruttare la crisi per regolare conti o per evitare di pagarli, col rischio di perdere di vista la realtà, senza alcun riferimento a qualcosa che assomigli a una strategia. E si è arrivati sull’orlo del precipizio.
È invece utile ricordare che, pur nella complessità delle interrelazioni fra le cause, l’origine interna del male è una sola. Non è l’Italia, è l’entità del debito italiano: la sua entità relativa (il rapporto debito/PIl, vedi INFOGRAFICA) e, date le dimensioni della nostra economia, quella assoluta, o meglio la dimensione assoluta della parte del debito pubblico italiano che deve essere rifinanziata nel breve e medio termine sul mercato degli investitori professionali.
Il debito pubblico italiano non è il primo del mondo per dimensione, ma è il terzo. Viene dopo quello Giapponese, ma questo è quasi tutto nelle mani dei residenti, e non grava se non per una quota modesta sul mercato internazionale; viene dopo quello americano, che è secondo in classifica ma si può finanziare stampando moneta; è più alto di quelli inglese e francese: ma a vantaggio del primo gioca anche la possibilità di svalutarlo, e a vantaggio del secondo un sovrappiù di credibilità del Paese, simmetrico al deficit di credibilità che ha a lungo colpito l’Italia, e che è incorporato nella tripla A assegnata alla Francia dalle agenzie di rating. Ma soprattutto, nel 2012 e nel 2013 l’Italia avrà bisogno, per rifinanziare il suo debito e gli interessi su di esso, di impiegare risorse pari a un quarto del suo Pil annuale. La Francia un quinto, la Germania un decimo.
È a livelli record l’entità assoluta del debito italiano da rifinanziare nei prossimi 12-24 mesi su un mercato libero e non protetto, e senza possibilità di svalutare, e l’Italia è per ciò stesso la prima vittima possibile di una tempesta finanziaria internazionale, di una crisi di fiducia generale dovunque generata. È il Paese che, nello stesso tempo, corre i maggiori rischi di vedere fallita un’emissione dei propri titoli di debito (data la loro frequenza e dimensione), e quella per la quale il fallimento di un’emissione è, insieme, più destabilizzante sia per gli investitori (per il peso del debito italiano nei loro portafogli) che per lo stesso emittente (per il rapporto fra debito e Pil).
In queste condizioni gli investitori stanno alla larga delle emissioni nuove, che cominciano ad andare male, e subito dopo cominciano ad alleggerire gli investimenti nello stock del debito esistente, il cui prezzo tende ad avvitarsi. È ciò che è avvenuto.
Il problema primario è dunque di stock, non di flussi; di stato patrimoniale – si direbbe parlando di un’impresa in difficoltà – non di conto economico: l’eccesso di debito peserebbe nella situazione presente anche a prescindere dalle modalità di generazione del debito stesso, e dalle sue tendenze di medio e lungo termine.
Queste sono tuttavia rilevanti per dare un’esatta misura dell’entità dei rischi per gli investitori e dell’intensità e difficoltà della cura correttiva. Qui si concentrano i problemi diagnostici cui facevo riferimento.
In quale direzione puntano davvero le tendenze del debito italiano, dati gli equilibri di partenza dei saldi, la legislazione vigente prima della crisi, e l’evoluzione presumibile dell’economia e della demografia del Paese? La risposta è molto meno chiara di quanto non dicano gli stereotipi e il senso comune, cha fanno pensare – senza verifiche – a una finanza pubblica italiana fuori controllo, o comunque dominata da tendenze strutturali perverse, che generano l’aumento automatico del debito, in divergenza rispetto agli altri Paesi europei, e che possono essere corrette soltanto a prezzo di duri sacrifici e riforme radicali. Ma è su questo punto che è necessario un supplemento di analisi, perché è certo che sacrifici sono comunque necessari, per riavviare la crescita, per essere un Paese civile, capace di sviluppo ed equità, ma non è vero che le tendenze del debito italiano sono univocamente orientate alla destabilizzazione e alla divergenza.
Senza entrare in un’analisi dettagliata della formazione dei saldi di finanza pubblica, non alla portata di chi scrive, è utile richiamarsi, per un riferimento sintetico e autorevole, alle fonti internazionali da cui alla fine dipende il giudizio tecnico sugli equilibri italiani e sulle relative misure correttive, cioè il Fondo Monetario e la Commissione europea. È una lettura istruttiva e, per molti aspetti, sorprendente.
Per quanto riguarda il Fondo Monetario, il documento che periodicamente analizza e compara lo stato della finanza pubblica dei diversi Paesi nell’ottica della sostenibilità del debito è il Fiscal Monitor trimestrale, sulla cui scorta gli ispettori del Fondo Monetario verranno in Italia avendo a mente, oltre che l’evidenza delle difficoltà di rifinanziamento dello stock del nostro debito, anche le tavole seguenti. La prima tavola (dal Fiscal Monitor di settembre), qui riportata in originale, è il quadro sinottico dei cosiddetti Fiscal Fundamentals nei principali Paesi. È un quadro di sintesi grafica, nel quale quanto più alti sono gli istogrammi che misurano i diversi indicatori, tanto peggio sta il Paese di riferimento.
Ebbene, l’Italia sta male su tre fronti: ovviamente il debito (121,1% del Pil, secondi dopo il Giappone), ovviamente i fabbisogni finanziari annui lordi (GFN, 22,8%, terzi dopo Usa e Giappone), ovviamente la differenza fra costo del debito e tasso di crescita del Pil (in cui siamo primi). Ma da qui in poi la realtà si dissocia dagli stereotipi, ed è necessario provare a ristabilirla.
L’Italia risulta largamente la più virtuosa per disavanzo pubblico al netto delle componenti cicliche (CAPD, l’Italia è l’unico Paese in surplus); l’Italia risulta il terzo Paese più virtuoso (dopo Giappone e Francia e molto meglio della Germania) per quanto riguarda le pensioni e addirittura il primo in materia di equilibri nella spesa sanitaria (con la Francia e gli Stati Uniti, dopo la recente riforma, a larga distanza). C’è di più.
La seconda tavola, qui sopra riportata in italiano, dà di questo quadro una rappresentazione numerica ancora più sintetica, e ancora più lontana dagli stereotipi e dalle opinioni correnti. Gli uffici del Fondo hanno misurato (in termini “illustrativi”) lo sforzo che ogni Paese deve fare da qui al 2030 per raggiungere un rapporto debito/Pil del 60%, identificato come soglia di sostenibilità di lungo termine. Lo sforzo, che è misurato in termini di punti percentuali di riduzione del disavanzo pubblico annuale rispetto all’anno di partenza necessario per raggiungere l’obiettivo, è tanto maggiore quanto più alti sono i debiti e i deficit di partenza, e quanto meno favorevoli le tendenze demografiche e di crescita economica in campo pensionistico e sanitario, a legislazione data. Ebbene, per raggiungere il 60% del rapporto debito/Pil lo sforzo aggiuntivo dell’Italia rispetto al 2010 consiste nell’aumento di 3,11 punti percentuali dell’avanzo primario da conseguire entro il 2020 e nel mantenimento di tale più elevato livello fino al 2030. Includendo pensioni e sanità, l’Italia deve migliorare di un punto in più, cioè del 4,1%. In base alla prima misura l’impegno dell’Italia è più gravoso di quello della Germania (2,3) ma molto meno di quello della Francia (6,3); includendo sanità e pensioni, l’Italia risulta essere addirittura il paese meno disequilibrato, il più virtuoso, almeno fra quelli di maggiori dimensioni con i quali si confronta, quello con minori oneri di aggiustamento per raggiungere la sostenibilità del debito.
C’è di più: lo sforzo aggiuntivo che dobbiamo fare per raggiungere in vent’anni il 60% di rapporto debito/Pil, è realistico più di quanto non lo sia quello necessario per l’aggiustamento di altri Paesi. L’Italia è uno dei pochi Paesi ad aver già sperimentato avanzi primari di una certa consistenza. Commenta il Fondo: «Beyond the large size of needed adjustment, for several advanced economies the required primary surplus is well above levels they have sustained in the past. In particular, among the advanced economies that will need to run primary surpluses exceeding 4 percent of GDP under the illustrative scenario, only Italy (…) and Ireland (…) have ever run average primary surpluses over a 10-year period that are close to the target in the illustrative scenario». Con ciò affermando – sempre il Fondo Monetario – che un aggiustamento dell’entità descritta sia alla portata dell’Italia più che di altri paesi, che nell’ultimo decennio non sono mai riusciti a portare in surplus i propri saldi primari, mentre l’Italia ha già sfiorato il 4% di surplus primario nel 2002. Fin qui, la diagnosi del Fondo Monetario.
Il giudizio tecnico della Commissione europea è del tutto analogo. Il Rapporto sulla stabilità finanziaria presentato da Banca d’Italia di recente (Novembre 2011) compara tre indici di sostenibilità finanziaria: quello del Fmi già descritto, e due indicatori elaborati appunto dalla Commissione europea, l’uno riferito alla vulnerabilità, e cioè al rischio che un Paese sia colpito da crisi finanziaria e l’altro, analogo a quello del Fondo, relativo all’aumento del rapporto avanzo primario/Pil (rispetto al valore del 2010) necessario, date le proiezioni demografiche e macroeconomiche, «a soddisfare il vincolo di bilancio intertemporale delle Amministrazioni Pubbliche». L’indice di vulnerabilità dell’Italia (nel quale il peso dello stock di debito è determinante) è comprensibilmente elevato, sia pure sotto la soglia critica che «segnala la possibilità di una crisi fiscale»; l’indice di sostenibilità, del tutto in linea con le stime del Fondo, è largamente ai livelli più alti dell’area Euro, con una distanza da Francia e Germania, sotto questo profilo, ancor più accentuata. Come si vede dalla tabella:
Il Rapporto della Commissione Europea sulla Finanza Pubblica nel 2010 afferma del resto con chiarezza che il problema è di debito, e non di deficit tendenziale: «For Italy (…) neither the budgetary position nor the long term cost of ageing are particularly high. However the initial levels of debt give cause for concern. In both Italy and Hungary, rapid budgetary consolidation is required to ensure a steady reduction of the currently very high level of debt, although it will need to be undertaken at a time when it does not adversely affect the recovery from the economic and financial crisis» e riporta calcoli sull’onere di aggiustamento necessario all’Italia per conseguire la sostenibilità del debito del tutto in linea (e su un orizzonte temporale più breve: 2010-2020) con le citate stime del Fondo Monetario.
Sono evidenze e valutazioni importanti, che basterebbero per ribaltare – con la forza delle istituzioni che le certificano – gli stereotipi negativi sull’economia italiana, o meglio sulle tendenze della sua finanza pubblica, che contribuiscono ogni giorno a minarne il merito di credito.
Il fatto è che chi ci ha rappresentato nei primi lunghi mesi della crisi, fino al suo culmine di inizio novembre, non ha avuto la forza e la credibilità per rimontare la china e smontare gli stereotipi, per mettere sul tavolo queste evidenze con energia e autorevolezza sufficiente. Ci siamo così trovati disarmati di fronte ad osservatori e policy makers stranieri, in molti casi non obiettivi e non disinteressati. Tutto questo ha complicato la comprensione della realtà dei fatti e dell’origine dei problemi, e non ha giovato alla saggezza ed efficacia delle terapie, e forse alle stesse aspettative del mercato.
Eppure, una visione dell’Italia più aderente alla realtà avrebbe giovato e gioverà anche all’Europa. I governi dei due Paesi forti dell’Euro utilmente avrebbero potuto comunicare alle proprie pubbliche opinioni che il Paese il cui debito è nel mirino dei mercati è anche – perché lo dicono le istituzioni preposte al controllo – uno di quelli più a posto in termini di tendenze di fondo dei propri equilibri di finanza pubblica (più a posto di loro, si potrebbe dire in un soprassalto nazionalistico, o almeno della Francia). E che per questo val la pena, ed è anche giusto, sostenerlo nei suoi sforzi, acquistare i suoi titoli di debito (con la speranza fondata di non perderci).
Se, sulla base di fatti obiettivi e di giudizi imparziali, grazie all’autorevolezza e al prestigio internazionale del nuovo governo, si riuscirà a ricostituire sul mercato un giudizio più sereno e obiettivo degli equilibri anche di finanza pubblica del nostro Paese, molto si sarà fatto. Lo spread potrà giovarsene. Ed anche le terapie d’emergenza, a contrasto della sfiducia dei mercati, potranno evitare overshooting e conseguenze troppo nocive per la crescita.
Il problema della crescita va collocato al posto giusto. L’Italia cresce poco, e tutto andrà fatto per accrescere strutturalmente il nostro tasso di sviluppo: si imporrà necessariamente la revisione profonda di molte cose, inclusi gli stessi equilibri attuali di finanza pubblica, che andranno orientati verso meno entrate e meno uscite, combattendo l’anomalia dell’evasione, e senza compromettere gli equilibri quantitativi faticosamente raggiunti. Se le attuali tendenze di fondo della finanza pubblica sono virtuose, è anche per un peso della fiscalità superiore alla media (INFOGRAFICA: La pressione fiscale in Europa), sfavorevole alla crescita, che andrà ridotto, quando il cammino dell’economia si sarà fatto meno accidentato. Ma c’è un tempo per ogni cosa.
Nell’emergenza non è facile conciliare crescita e consolidamento fiscale, non lo è in generale, e non lo è in Italia oggi, anche perché non è evidente che siano all’opera, da noi, fattori di freno della crescita ben identificati e nello stesso tempo agevolmente rimuovibili. Pensiamo al mercato del lavoro. Nel 1992 era la rigidità dei salari a compromettere la competitività e frenare la crescita: si agì infatti sulla scala mobile, e poi con la svalutazione, e negli anni successivi con le riforme del mercato del lavoro. Oggi, la legislazione a protezione del lavoro, ovviamente migliorabile, appare del tutto allineata agli standard dei Paesi concorrenti (come si può notare nella tabella qui sotto riportata), e non sembra agire da freno evidente e immediato della competitività. La forza delle esportazioni, pur in presenza di indici non eccellenti di competitività di prezzo, lo conferma.
Non c’è, in questo campo, un’emergenza, ma resta il fatto che le riforme sono necessarie, che il tasso di sviluppo va aumentato, soprattutto per l’occupazione di giovani e donne, le tasse e le spese ridotte, la concorrenza e la meritocrazia affermate, con più scuola e ricerca, con una maggiore equità: questo è il programma di una legislatura, su cui – rimossi ostacoli di varia natura – sarà possibile mettere a confronto idee e punti di vista, concentrare le migliori energie del paese. Il problema di fondo del nostro strutturale difetto di crescita non va confuso con l’emergenza, pena la paralisi decisionale alla quale abbiamo assistito.
Nell’emergenza, la crescita resta tuttavia un nodo cruciale, sia pure in termini difensivi: va evitato in ogni modo che le misure di aggiustamento producano “troppa” recessione, da cui deriverebbe un circolo vizioso capace di generare immediatamente, attraverso gli stabilizzatori automatici, effetti perversi sui saldi di finanza pubblica. E bisogna evitare quindi in primo luogo che il credit crunch – derivante dallo spread non sostenibile e da iniziative incomprensibili in materia di capitalizzazione delle banche italiane, frutto ulteriore della debolezza del nostro bargaining power internazionale – comprometta le residue fonti di crescita del Paese, e fra di esse, come accennato, esportazioni che crescono a livelli record, a conferma della solidità della posizione competitiva dell’Italia quando si confronta apertamente, in piena concorrenza, con il mercato globale. Tutto ciò che è possibile va destinato a sostegno di strumenti che alleggeriscano gli oneri per interessi di imprese e famiglie, e ne mantengano elevato l’accesso al credito: e questo è parte essenziale di un programma di aggiustamento nell’emergenza. Che potrebbe peraltro non escludere misure una tantum sull’ammontare del debito, complesse da adottare e per diversi aspetti discutibili, ma che – se ben calibrate – potrebbero realizzare in modo socialmente equo l’obiettivo di una apprezzabile riduzione dello stock del debito, senza pesanti effetti recessivi, e che non sembrano inadeguate a far fronte, data la sua genesi e natura, all’emergenza presente. Ma questo è un altro tema.
*Pietro Modiano è presidente di Nomisma e uno degli ottanta soci de Linkiesta.