I sindacati oggi scioperano. La quasi totalità dei lavoratori sotto i 40 anni oggi invece lavora e ormai non è più nemmeno una scelta. Non si sciopera per consolidata e meditata abitudine. E anche chi ha contratti di lavoro che disincentivano fortemente l’astensione volontaria dal lavoro, difficilmente sciopererebbe se anche avesse un diverso inquadramento. Inutile nascondersi: non è la paura del licenziamento che tiene i giovani lontani dalla piazza o dalla militanza sindacale. Moltissimi fra noi, lavoratori che hanno meno di 45 anni, sentono le parole “sciopero” e “sindacato” come qualcosa di lontano, che arriva come una eco dal passato, dal Novecento. Dagli anni in cui ad avere la nostra età erano i nostri genitori.
Inutile negare: il disinteresse e il senso di distanza sono ampiamente ricambiati. I sindacati invitano a scioperare tardo cinquantenni che devono andare in pensione qualche anno più tardi, mentre noi calcoliamo agevolmente in rete che lavoreremo comodamente fino ai 72, 73, o anche 74 anni. Insomma, andremo in pensione con “50 anni di contributi” e dopo aver attraversato una selva di contratti che – se nulla cambia – non ci farà mai sentire protetti o tutelati da altri che non sia il nostro talento, la nostra voglia di lavorare e la nostra fortuna.
Può anche andarci bene, ma si sappia che la storia è questa. Del resto, la prima Cgil che un lavoratore sotto i 35 anni si ricorda davvero, non faceva sindacato ma tentava di prendersi la politica, per mano di Sergio Cofferati. Perse, e sarebbe davvero curioso poter vedere come sarebbe andata a finire se avesse vinto lui, e avesse perso Massimo D’Alema.
Sia come sia, con sindacato e sciopero non ci siamo mai capiti. Siamo sopravvissuti, noi e loro, gli uni agli altri. Noi ci siamo difesi e tutelati, ognuno a modo suo, perché moltissimi di noi ci tenevano e ci tengono a sentirsi padroni di se stessi. “Padroni a casa nostra” diceva una volta un partito di fine Novecento. Comunque figli, davvero, di una visione “imprenditoriale” del nostro vivere e lavorare. Loro hanno difeso e tutelato – giustamente fedeli al mandato di ogni sindacato – i propri iscritti, pensionati o pensionandi.
Ora Berlusconi non c’è più e la funzione politica del sindacato – e naturalmente non solo la sua – cambia sensibilmente di segno. Si torna alla contrattazione, al core business dei sindacati, insomma. La politica ha l’aria grigia e professorale di Mario Monti: il governo dei tecnici parla di saldi e di rigore di bilancio come un governo politico qualsiasi, ma con qualche credibilità in più, e senza gli ammorbidimenti di chi rappresenta un voto e ambisce a non perderlo. Confindustria si è inabissata, dal dibattito pubblico, dopo aver date le sue spallatine finali al Cavaliere, proprio mentre si sceglie il futuro leader degli industriali.
In questo presente, sarà bene non dimenticare che interessi sani che si rappresentano in modo sostanzialmente serio sono un bene per tutti. Sono soprattutto un segno di vera civiltà, di intelligenza collettiva. E sarà bene ricordare che “lavoro” è sempre un soggetto fragile, col quale ci si può fare molto male, o molto bene: non è una parola del Novecento. Questo sindacato difficilmente si riformerà. Sarà bene quindi pensare, da subito, a come rappresentarci direttamente di fronte alla politica, all’impresa e ai vecchi sindacati: non lasciando dire a nessuno che è in nome nostro che protestano, scioperano, rivendicano o si fanno finanziare.