Una folla enorme si è radunata a Mosca e in altre città russe per protestare contro i brogli elettorali che, in base a numerosi riscontri, avrebbero alterato le elezioni parlamentari all’inizio di dicembre. Secondo gli organizzatori, alla Vigilia di Natale, nella capitale si sarebbero radunate 120.000 persone, un po’ di più rispetto alle stime della polizia, che segnalavano 29.000 partecipanti. La richiesta principale è quella di ottenere nuove elezioni, con la vigilanza di organismi indipendenti.
Nella lettura occidentale si tratterebbe dell’inizio di una “Rivoluzione colorata”: il vagito di una democratizzazione nascente. In realtà, le questioni sono molto più complesse e locali: non possiamo peccare di “euro-centrismo” attribuendo alle manifestazioni un messaggio che non hanno, o che sicuramente è solo marginale. I problemi della Russia, prima della partecipazione popolare alla vita politica, riguardano istanze chiarissime di benessere economico e sicurezza. Per i russi, Putin non è in grado di tenere in piedi la situazione.
Molte sono le critiche. Tra le più eminenti, il giornalista star russo Leonid Parfenov in un intervento video ha paragonato Vladimir Putin a Leonid Brezhnev. Se l’attuale primo ministro russo dovesse vincere le elezioni da presidente il prossimo anno, con il nuovo mandato raggiungerebbe i 18 anni di governo, pari alla durata della dittatura di Brezhnev (1964-1982). Come nel caso di Brezhnev, anche gli anni di Putin sono stati contraddistinti da promesse enormi di riforme mancate. L’Unione Sovietica di allora, come la Russia di oggi, sono fin troppo dipendenti dall’esportazione di materie prime.
I segnali dell’involuzione presidenziale c’erano tutti. È stato sorprendente il discorso di Putin alla Duma lo scorso 20 aprile, interrotto 53 volte per applausi, con i deputati interrotti a obbedienti Fantozzi moscoviti. Soprattutto, nel nuovo mandato Putin rischia di diventare oggetto di feroci barzellette, come capitò a Brezhnev negli ultimi anni.
Forse Putin si vedrà attribuire quella ingenua e celeberrima del contadino con il melone. Brezhnev vede un uomo che trasporta un melone con una carriola, lo ferma e chiede se lo può avere. L’uomo sorride e gli risponde: “Presidente, scelga lei quello che preferisce”. Brezhnev replica stupito: “Ma come, ce n’è soltanto uno!”; e il contadino: “Beh, un po’ come abbiamo scelto lei!”. Sostituendo il nome di Brezhnev con quello di Putin, potrebbe cambiare assai poco.
Sembra, quindi, che la manovra di delegittimazione costante dell’opposizione abbia iniziato a irritare i russi. Ai tempi dell’Unione Sovietica, almeno, all’interno del Partito esistevano correnti di dissenso interno e gruppi di potere, che in qualche modo davano vitalità agli uffici del Cremlino. Il putinismo super-accentratore è crollato in un torpore appiccicoso, da cui la Russia non riesce a scrollarsi.
Ho dubbi sul fatto che ciò possa significare voglia di democrazia. È chiaro che anche i regimi democratici, come quello di Putin, hanno bisogno di un’opposizione almeno finta. Lo sapevano anche Atatürk in Turchia, che a più riprese cercò di fondare partiti per farsi opposizione da solo; e lo sapeva anche Mohammed Mossadeq nell’Iran degli anni Cinquanta, che accettava l’opposizione, salvo poi riservarsi di vincere il voto popolare con preferenze al 98%.
L’opposizione a Putin era mantenuta in vita artificialmente: dietro al suo “Russia Unita” ci sono gli zombie comunisti di Gennady Zyuganov, una sorta di artista della politica; e poi ci sono varie formazioni vagamente centriste. Non si tratta di nulla che abbia mai preteso di impensierire l’ordine del Cremlino. Soprattutto, l’idea di presentare un candidato unico dell’opposizione non è mai stata nemmeno considerata.
Eppure, il dissenso popolare è vero. Sta aumentando la partecipazione a movimenti d’interesse locale, con scopi ecologici, per i diritti umani o per la possibilità di espressione economica. In fondo, la gente inizia a pensare di non aver nulla da perdere, e l’opposizione diventa più conveniente della collaborazione.
Si tratta di democrazia? I russi spesso dicono di loro stessi che non vogliono scegliere un capo, anche perché spesso non si fidano degli umori del popolo. Preferiscono avere un condottiero da cui essere guidati, che abbia l’intelligenza di compiere le scelte migliori per la nazione. Se crolla la fiducia in Putin, non significa che i russi non credano più nel presidenzialismo assolutista. Quindi, smettiamola di illuderci: quella russa non è la rivoluzione francese, ma un cambiamento nell’assetto di potere.
La polizia ha sedato le rivolte solo all’inizio, poi ha dovuto rinunciare. La novità è che la televisione statale sta trasmettendo le immagini delle rivolte, con generosità di minuti e insospettabile accuratezza. Evidentemente qualcuno ha interesse perché ciò avvenga, come osservava Linkiesta alcuni giorni fa.
Sul dissenso popolare si costruirà il cambio di regime. Putin potrebbe riuscire a vincere le prossime elezioni, ma non durerà due mandati. Ancora una volta, il sentimento popolare verrà impiegato per abbattere il leader, affinché altri ne prendano posto. Anche questa rivoluzione russa potrà essere archiviata come colpo di stato, come le Rivoluzioni colorate di dieci anni fa, e le rivolte mediorientali di oggi. Tutto cambierà, affinché non cambi nulla.