Risate, pacche sulle spalle, capannelli che si formano e si sciolgono continuamente, a fisarmonica. Il Transatlantico, nei giorni più solenni del nuovo corso, si presenta così. Immobile, come ieri e come domani.
Un’ex ministra dell’era berlusconiana e un deputato del Pd si trovano alla bouvette, l’ora è quella dell’aperitivo. Noccioline e caffè per lei; prosecco e Aperol – il mitico spritz – per lui. “Chi l’avrebbe mai detto, adesso siamo in maggioranza insieme” ridacchiano. “Ma del resto dai, siamo tutti e due lombardi”. Ma quanto dura la storia, viene spontaneo chiedere passando per caso di lì? “Fino al 2013, fine legislatura” dicono all’unisono.
Sono le ore in cui i segnali che arrivano dal pianeta spread sembrano inequivocabili: la credibilità e le dure misure del nuovo esecutivo parlano la lingua della stabilità. “E poi, insomma, abbiamo tutti bisogno di tempo”. Già, la deputata del Pdl spiega ancora una volta l’iter congressuale: a gennaio inizia il percorso territoriale, poi ad aprile ci sarà quello nazionale. “Il primo vero congresso da quando esistiamo” ammette chi ha attraversato tutto il berlusconismo politico fin dagli albori dei movimenti giovanili di Forza Italia. Da quel congresso dovranno uscire indicazioni chiare sul futuro: programmi, alleanze, solide ipotesi di candidature del post-Berlusconi. Insomma, impensabile “che romperemo le scatole a Monti almeno fino a primavera inoltrata”. Servirà, ovviamente, che la situazione dei mercati si stabilizzi. Servirà che le finanze pubbliche siano messi in sicurezza. Servirà, infine, che i partiti si riorganizzino e si riabituino a fare politica in uno schema completamente nuovo.
Intanto, per resistere con maggiore serenità e prospettiva, serve un nemico comune: e per un governo di “unità nazionale” non c’è nulla di meglio che un nemico che invita alla disunità, e addirittura torna a gridare alla secessione. “Sto preparando una mozione congiunta, Pd-Pdl, che farà infuriare i leghisti” spiega un dirigente del partito di Bersani. Dalle parti del Pd c’è aria di rassegnata allegria. Sanno bene che i costi e i rischi politici, nell’immediato, sono i loro. Sanno anche bene che, dopo tutto, nel loro Dna di post-comunisti e post-democristiani c’è lo stigma della “responsabilità”. I più sinceri, poi, conoscono bene anche il limite strutturale di un partito che, sul tram della storia, non era pronto a salire: “Non ti dimenticare che, dopo tutto, mentre Berlusconi stava crollando sotto i colpi dello spread il nostro principale problema era Matteo Renzi”. Come a dire che, alla fine, proprio quando bisognava essere compatti come un sol uomo e sapere esattamente dove andare, gli uomini al comando erano, potenzialmente, almeno due.
Insomma, il congelamento non solo dei toni che arriva dal governo Monti fa davvero comodo a entrambe le sponde della inedita maggioranza Pd-Pdl. La situazione sembra pronta per un letargo che sfocerà direttamente, presto o tardi, in campagna elettorale. “Ci batteremo per migliorare la manovra, fino allo stremo”, e ognuno dice la sua ricetta: ma la soglia dello “stremo”, in questo caso, sembra assai lontana dal rischiare una rottura anche solo simbolica, almeno per ora.
Come in ogni compromesso storico che si rispetti, gli esclusi sono pochi, ma quei pochi sono davvero reietti. Bastava vedere dove sedeva Marco Milanese, ieri, mentre parlava Mario Monti. All’estrema destra del Parlamento, isolato tra i banchi del Pdl, lontano da tutti i colleghi. E i pochissimi tremontiani rimasti in giro, commentando la decisione dell’ex super-ministro di sospendere “temporaneamente” l’attività politica, spiegavano che il regolamento di conti nel Pdl sta risparmiando tutti: ma non Tremonti. “Cercano in ogni modo di cancellarlo, di farlo saltare definitivamente: e pensare che in questa manovra Monti, c’è moltissimo di Tremonti…”.
Lontano, là fuori, nel “paese reale”, la politica sta per essere percepita con nitidezza nella sua versione tecnica: tagli, tasse sulla benzina e la casa. Cinghie tirate perché c’è un paese da salvare. Nel palazzo, come una fisarmonica, i capannelli si fanno e si disfano secondo le nuove geometrie. Fabrizio Cicchitto, Enrico Letta e Dario Franceschini, ieri, se ne andavano risoluti, insieme, parlando a bassa voce e senza dare retta ai cronisti che provavano a strappare la battuta. Ormai sono alleati, e da buoni alleati si incontrano informalmente per discutere di piani e strategie. In aula, intanto, continuava una discussione su ordini del giorno e proposte di legge. Nello specifico, si parlava di Malpensa, un grande aeroporto che doveva fare grande il Nord e il Paese. Ma in aula erano rimasti in pochi. Tra Bouvette e Transatlantico si decidevano, come ogni giorno, gli scarni retroscena giornalistici dell’indomani. Il paese reale, da Malpensa giù giù fino allo Stretto di Messina, può attendere.
“Tanto siamo in buone mani, quelle di Monti e dei suoi”, ti dicono i neo alleati di Pd e Pdl.