Se ne sono andati

Se ne sono andati

Eva Monley

(29 aprile 1923 – 12 novembre 2011)

Nata Eva Sachs, di Berlino, e poi cittadina d’Africa, d’Arabia, e del Medio Oriente. Attraverso il cinema, e non come attrice o regista. Parlava molte lingue, e, in particolare lo swahili della Tanzania e del Kenia. Dove è morta, a Nanyuki, a casa sua. Aveva 88 anni.

Nel dopoguerra, i vecchi imperi coloniali che si smantellavano nella realtà, tornavano a vivere, con le loro storie, avventure, e star di primo piano (anche geopolitico), nel cinema. Come se fossero stati sempre dei film: le divise kaki, i caschi, i deserti, le savane, i teatri di guerra dislocati dappertutto. E come un mezzo in più per saperne di Storia, anche criticamente. E con surplus di opulenza in scena: kolossal, a colori, lanci hollywoodiani, grandi attori e attrici, colonne sonore diventate dei classici, eccetera.

E milioni di dollari, e gare efferate fra produttori. E meravigliose trasferte per esplorare, o costruire, le location. Eva Monley ha fatto questa vita: lunga, globalizzata ante litteram, e su set che hanno in parte combaciato con la sua vita. E con un mestiere preciso: direttrice di produzione, con ricerca dei luoghi dove andare a girare. E con l’intelligenza, o la prontezza, nel risolvere gli inconvenienti non previsti. Per esempio, un rinoceronte che attaccava una jeep durante le riprese di Mogambo (1953). Su quella jeep c’erano, terrorizzati, Clark Gable e Ava Gardner. Ma il problema stava nel trovare subito un altro mezzo, dopo aver rassicurato le due star.

Eva era velocissima: quando Barbra Streisand, nel 1972, le chiese di trovare un «vero villaggio africano» (piuttosto che una ricostruzione in studio) per girare Up the Sandbox, lei volava con Barbra in un villaggio Samburu, subito fuori Nairobi, e traduceva all’attrice ogni particolare della trattativa. Era nata tedesca di lingua madre, figlia di Johannes ed Edith Sachs, berlinesi: lui funzionario delle poste, lei fisica. Uno dei genitori era ebreo, ma Eva non avrebbe mai detto quale (era probabilmente il padre, poi internato e ucciso in un campo di sterminio nazista).

Sarebbe stata una fuggitiva dalla Germania, con sua madre e sua sorella, e avrebbero scelto, come luogo d’esilio, l’Africa britannica e uno dei suoi cuori, cioè il Kenya. Dove, con un surplus di protezione, sua madre organizzava un’adozione delle sue bambine da parte della famiglia Monley. Un cognome inglese, d’arte, e di affetto, che sarebbe rimasto. Insieme a una lingua, locale (lo swahili) e, in prospettiva, di lavoro. Ha trovato i luoghi, e i denari, e organizzato scene, pause, e accorgimenti per oltre 60 film: come Lawrence d’Arabia di David Lean (girato in Spagna, Giordania e Marocco), Exodus di Otto Preminger (girato soprattutto in Israele), Out of Africa, di Sidney Pollack (girato in Kenya). In definitiva tre ricostruzioni «colossali» di Storia e storie verissime: la missione del più originale agente del Foreign Office nel deserto arabico, la nascita, drammatica, di Israele, la passione africana di una grande scrittrice (Karen Blixen). Il tutto, scandagliato in loco da una sportiva signora già tedesca «che sapeva sempre, ed esattamente, dove si trovavano gli elefanti».
 

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Leka Zogu

(5 aprile 1939 – 30 novembre 2011)

Principe ereditario d’Albania. Avrebbe voluto essere re – come Leka I – e ci provò, a mano armata ma relativamente inoffensiva. Contro un referendum, relativamente pilotato, con cui il 65 per cento dei cittadini sceglieva la repubblica. Aveva 72 anni, ed era nato a Tirana. Dove è morto, dopo un inquieto viavai durato fino al 2002.

Ante Marković

(25 novembre 1924 – 28 novembre 2011)

Croato bosniaco di Konjic, e primo ministro jugoslavo, senza successori, dal marzo 1989 al dicembre 1991. Da ricordare con un certo rispetto: col massimo di buona volontà ha provato a salvare quello Stato federale ed evitare i bagni di sangue seguiti al disfacimento. Un tecnico, con visioni politiche senza speranze, ma competenze economiche aggiornate ai tempi. È morto a Zagabria a 87 anni.

Le due persone qui ricordate insieme non hanno condiviso niente. Se non il fatto di avere avuto una sorte “balcanica”, dove il termine – non spregiativo – ha voluto anche dire, nell’ultimo secolo, una serie di possibilità non andate in porto, una successione di storie virtuali, con molti “se” variamente ipotizzabili. Se il serbo Gavrilo Princip non avesse sparato all’arciduca austro-ungarico nel 1914, se le potenze vittoriose del 1918 non avessero dato l’imprimatur all’improbabile regno jugoslavo, se l’Italia fascista non avesse aggredito gli albanesi nel 1939, se il maresciallo Tito fosse stato più coraggioso nell’aprire il suo regime, se l’Europa franco-tedesca e anche italiana avesse avuto un’unica lunghezza d’onda e meno amori pelosi (filoserbi, filocroati, eccetera) di fronte ai crolli oltre-adriatici del 1989…

Oggi, di tutto questo – cioè della Storia – la sconvolta Europa dell’euro in crisi si fa probabilmente un baffo. Incrocia calcoli al millesimo, e paure al cubo: quanto pretendere dalla Serbia per farla entrare, quanto far aspettare ai margini i montenegrini, o quelli di Durazzo e Valona, quanto è utile al mercato tedesco Zagabria nell’Unione, eccetera. Casi e dislocazioni diverse. Ma poco più di vent’anni fa, a Belgrado, il comunista croato Ante Marković cercava di ragionare all’europea: le aziende di Stato erano privatizzabili, l’inflazione cavalcante era stata fermata, il dinaro stabilizzato. Si chiamavano riforme economiche a ridosso del precipizio, e lui, l’ultimo premier dell’ex Stato della “cogestione”, era diventato popolare per questo. Di aziende se ne intendeva, essendo un ingegnere elettrotecnico, e avendo diretto (dal 1961 al 1984), la Rade Končar, cioè la grande compagnia federale che distribuiva elettricità. Aveva anche una memoria bosniaca, essendo nato lì, e immaginava che in quella provincia da sempre incrociata (musulmana-serba-croata) poteva succedere il peggio. Con le armi.

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Le armi del principe albanese Leka Zogu (figlio dell’unico presidente – e poi re – Ahmed Zogu I, cacciato dall’invasione di Mussolini nei tardi anni Trenta) erano invece scarse. Nel 1993, piombava, dopo 54 anni d’esilio (in Francia, nella ex Rhodesia, in Sudafrica, dove, sembra, trattasse proprio armi) a Tirana proponendosi erede “di diritto”: era stato incoronato, oltre trent’anni prima, all’Hotel Bristol, a Parigi, dopo la morte del padre (15 aprile 1961). Il governo e lo Stato postcomunista – da dove gli albanesi continuavano a fuggire via mare – lo pregarono di andarsene. In attesa di un previsto referendum.

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Indetto nel 1997, concluso con un verdetto repubblicano, ma con una Commissione elettorale probabilmente incline al broglio: al principe non andò giù, e scelse una forma di resistenza variamente classificabile (da operetta, o balcanica, o sudamericana, o da colonnelli di tutto il mondo) ripiombando nella capitale con due pistole, due granate, e dopo aver convocato un’assemblea di sostenitori. Restarono comunque due morti sulle strade, e cinque feriti all’ospedale. E Leka veniva, questa volta fermamente, obbligato a riprendere la via dell’esilio. Da considerare, che in quell’area balcanica allargata, nel giro di quattro anni, si sarebbe concluso un massacro storico (in Bosnia-Erzegovina, con gli accordi “internazionali” di Dayton, del 1995), e si sarebbe aperta una nuova guerra, “internazionale”, nella provincia serbo-albanese del Kosovo (1999).

Dal 1991, il volonteroso Ante Marković non aveva più detto niente in pubblico. Avrebbe ripreso la parola nel 2003, nell’aula del Tribunale dell’Aja, per deporre contro Slobodan Milošević. La doppia accusa era di «sabotaggio del processo di democratizzazione nella ex Jugoslavia», e di «ruolo chiave nell’aver armato i serbi allo scoppio della guerra bosniaca». Un anno prima, nel giugno del 2002, disarmato, e con la promessa di starsene zitto sui suoi diritti, il principe Leka era tornato stabilmente a Tirana.  

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