Si ritorna a parlare di una scoperta che cambierebbe il corso della scienza: la “particella di Dio”. Vi riproponiamo il nostro articolo dello scorso dicembre, scritto in occasione di un annuncio – poi smentito – della scoperta.
Forse l’hanno preso in trappola, dopo cinquant’anni di attesa. Niente di definitivo, i risultati non offrono ancora certezze, ma i ricercatori del Cern, martedì scorso, quando hanno dato l’annuncio ai giornalisti, avevano il sorriso di chi pensa di avercela fatta ad acchiappare finalmente il bosone di Higgs (alias “particella di Dio”). Altrimenti, perché avrebbero convocato una conferenza stampa dopo aver fatto filtrare abili indiscrezioni per massimizzare l’attenzione dei media?
Per i lettori ignari di fisica delle particelle (cioè quasi tutti i cittadini europei che pagano le tasse e finanziano il Cern di Ginevra) la presunta scoperta ha il fascino esotico dell’incomprensibile. Che cos’è la particella di Dio e perché si chiama così?
Fu Leon Lederman (fisico e premio Nobel) a coniare quel soprannome in un libro scritto nel 1993 e intitolato, appunto, “La particella di Dio”. Ma perché scomodare il creatore per definire una particella elementare prevista dalla teoria di un fisico (Peter Higgs) ma non ancora scovata? Per due ragioni, scriveva allora il geniale e bizzarro Lederman (oggi ottantanovenne). La prima ragione era prosaica e paradossale: “L’editore non avrebbe mai accettato di pubblicare un libro intitolato “La particella maledetta da Dio”, anche se si tratterebbe di un titolo più appropriato, vista la sua natura malvagia e le spese che sta comportando”. La seconda ragione aveva un risvolto biblico: secondo Lederman la conferma dell’esistenza della particella metterebbe ordine nel mondo dei fisici, dove regna una confusione degna della torre di Babele. Ma torniamo indietro di un passo e soffermiamoci sul problema dei costi.
Allora, nel 1993, quando Lederman scrisse il suo libro, il Dipartimento per l’Energia americano stava finanziando la costruzione del SSC (Superconducting Super Collider) che aveva come obiettivo principale proprio la caccia al bosone di Higgs: il progetto prevedeva un tunnel sotterraneo lungo 87 chilometri vicino a Waxahachie, in Texas. Ma dopo dieci anni di lavori (venti chilometri di tunnel già scavati, due miliardi di dollari svaniti e una previsione di spesa che aveva superato i 12 miliardi di dollari) il presidente Bill Clinton e il Congresso, con grande scandalo dei fisici americani, decisero che non se ne faceva niente. La guerra fredda era finita, non c’era più bisogno di dimostrare di essere più bravi dell’Unione Sovietica e forse era meglio spendere tutti quei soldi in altro modo, magari in mille piccoli progetti piuttosto che in uno di dimensioni stellari.
A quel punto la palla rimbalzò in campo europeo e nel 1995 il Cern di Ginevra decise di costruire l’LHC (Large Hadron Collider), una circonferenza lunga 27 chilometri da costruire a qualche centinaio di metri sotto i piedi degli abitanti di Ginevra per far scontrare le particelle elementari a una velocità prossima a quella della luce e far saltare fuori, appunto, l’elusivo bosone di Higgs. Bilancio dell’operazione: 7,5 miliardi di euro (e seimila fisici impegnati nell’operazione).
Per chiarire il contesto va aggiunto un elemento. Lederman è uno dei fondatori di un’associazione battezzata “Phisics First”, la fisica al primo posto, che si batte perché questa disciplina sia posta formalmente in prima fila nelle scuole americane, un passo avanti rispetto a Biologia e Chimica, scienze di seconda linea. D’altra parte, chi spenderebbe 7,5 miliardi di euro per un progetto sperimentale nei settori della chimica, della biologia e persino della medicina? Invece, è l’ipotesi di Lederman, la fisica aiuta a rispondere ai grandi interrogativi che l’uomo si pone fin dai tempi di Democrito e Aristotele, e in questo caso i 7,5 miliardi di euro servono a confermare il Modello Standard, una teoria coniata negli anni Ottanta che viene considerata un grande passo avanti verso la Teoria del Tutto.
Ma andiamo avanti con cautela. A cosa serve l’LHC costruito a Ginevra? Lederman spiega che un acceleratore è come una macchina del tempo che consente di riprodurre le condizioni che esistevano pochi istanti dopo il Big Bang (stiamo parlando di milionesimi di secondo), quando entra in gioco il bosone di Higgs. Perché è importante questa (divina) particella? Perché, secondo la teoria di Higgs, quella particella avrebbe la funzione di dare la massa alla materia esistente. L’idea di fondo è che l’intero universo sia permeato da un campo (il campo di Higgs) che è identico ovunque. Quando guardiamo le stelle, di notte, le vediamo attraverso il campo di Higgs. E questo campo consente alla particelle di avere una massa.
Brian Green, noto fisico e scrittore, nonché impareggiabile inventore di metafore, ha scritto sul New York Times che il campo di Higgs è una sostanza invisibile che permea lo spazio e agisce come una melassa che frena le particelle quando cerchiamo di accelerarle. Più una particella si appiccica al campo di Higgs, più è difficile accelerarla, e più grande appare la sua massa. Quindi, continua Brian Green, anche il più vuoto degli spazi vuoti sarà comunque permeato dal campo di Higgs, e questo impone un ripensamento del concetto di nulla: anche uno spazio apparentemente vuoto sarà comunque occupato da un campo capace di conferire una massa a una particella che passasse da quelle parti.
Da qui nascono alcune inevitabili suggestioni. Già Aristotele aveva suggerito che oltre ai quattro elementi fondamentali – terra, acqua, aria, fuoco – ne esistesse un quinto chiamato etere che costituisce la materia di cui sono costituite le sfere celesti. Nell’Ottocento, ai tempi di Maxwell, i fisici si convinsero che per spiegare la diffusione delle onde elettromagnetiche (luce compresa) fosse necessario ammettere l’esistenza dell’etere. Poi arrivò Albert Einstein, e dimostrò che dell’etere si poteva fare a meno.
E adesso spunta il campo di Higgs: qualcosa di simile all’etere dei tempi andati? Qui i fisici mettono le mani avanti: il parallelo è improprio. Perché il campo di Higgs non serve per far viaggiare la luce, ma è un campo legato alla massa delle particelle. Fermiamoci qui. Quello che ci interessa capire è il fatto che il campo di Higgs (se la teoria è giusta) è stato creato nei primi istanti di vita dell’universo da una particella (un bosone, cioè una particella a spin intero) che decade in una frazione di secondo in altre particelle.
Il Cern ha costruito l’LHC (e ha speso sette miliardi e mezzo di euro) per dare la caccia a questa particella. Per sperare di acciuffarla è necessario dunque accelerare i protoni a una velocità prossima alla luce, farli scontrare frontalmente a un’energia paragonabile a quella che esisteva pochi milionesimi di secondo dopo il Big Bang, quando il valore della temperatura era un numero con 24 zeri. La teoria dice che le collisioni dovrebbero generare una quantità di bosoni di Higgs che, decadendo in un nanosecondo, danno origine una cascata di particelle rilevabili dagli apparati strumentali del Cern. Gli scienziati si aspettavano che la particella di Higgs avesse una massa pari a 115-140 atomi di idrogeno. I risultati sperimentali fanno supporre che il valore più probabile potrebbe essere 126. Ma è ancora presto per dirlo.
Alcuni ricercatori dicono che siamo ancora lontani dall’obiettivo e parlano di “Higgsteria” collettiva. E si capisce perché. Se la particella di Dio non si troverà, i 7,5 miliardi saranno stati spesi solo per dimostrare che la teoria di Higgs era una bufala: una costosa delusione. Se invece la particella di Dio sarà individuata, i fisici avranno fatto un altro passo in avanti nella comprensione dell’universo. E dopo? Lederman, nel suo libro, sogna (letteralmente) grandi acceleratori interplanetari da costruire nello spazio. Può darsi, un giorno. Quando gli europei avranno finito di pagare i loro debiti.
Ripensando a quell’enorme investimento deciso alla metà degli anni Novanta viene spontanea notare come siano cambiati i tempi. Allora gli europei, inguaribili chic, potevano permettersi di investire una somma colossale in ricerca fondamentale, per dare una risposta alla sete di conoscenza della comunità dei fisici. Ma già in quegli anni gli americani guidati da Bill Clinton avevano cominciato a capire che l’era dei megaprogetti (prima quello del supercollider poi quelli della Nasa) era finita: meglio concentrare gli sforzi in ricerca e sviluppo nei settori high tech di frontiera, nel momento in cui la Cina e altri paesi emergenti diventano concorrenti anche nelle tecnologie più avanzate. Adesso, con la competizione internazionale sempre più aspra e l’Occidente sempre più debole, il grande acceleratore di Ginevra appare il progetto di un’altra epoca. Difficilmente i fisici, che pure restano la lobby più nobile della ricerca mondiale, saranno in grado di convincere l’opinione pubblica a lanciare un altro progetto di simili dimensioni in futuro.