Ungheria, dove la crisi fa più male torna il fascismo

Ungheria, dove la crisi fa più male torna il fascismo

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Documentario di Roberto Festa e Claudio Maggiolini – Serial Flowers

Anche l’Ungheria è in crisi finanziaria: Moody’s ha declassato i suoi titoli di stato a livello di “junk bonds” (Ba1), considerando che il paese ha il più alto livello di indebitamento dell’Est Europa, all’81% del Pil – oltre alla crescita più bassa. Il governo sta negoziando da mesi la fornitura di un pacchetto di aiuti da parte dell’FMI, ma il premier di centro-destra Viktor Orban ha dichiarato in più occasioni di non voler cedere ad alcun compromesso.

La reazione del governo è schiettamente muscolare e nazionalista. Orban ha dichiarato che, se l’Ungheria non riuscisse a trovare un accordo con l’FMI, le conseguenze non sarebbero poi «così tanto gravi». Ai fatti, sia la Banca Centrale Europea, che l’FMI, hanno lasciato il tavolo negoziale da alcuni giorni. La rottura è arrivata con l’annuncio di alcune nuove leggi da parte di Budapest, dirette alla banca centrale ungherese. Il presidente dall’istituto nazionale, Andras Simor, non avrebbe più potere di nominare i suoi vice: tale facoltà spetterebbe alla politica, che potrebbe anche indicare i membri del consiglio monetario nazionale. La legge in discussione fa parte di una serie di provvedimenti introdotti nell’ultimo anno, tra cui l’obbligo per le banche private di assorbire alcune perdite su mutui in valuta estera, la nazionalizzazione di fondi pensione per 13 miliardi di dollari, e tasse straordinarie sui profitti commerciali.

Qualcuno potrebbe gioire: anche l’Ungheria, a quanto pare, sta scegliendo la strada islandese. Anziché “abbassare la testa” di fronte alle richieste ingiuste di chi ha prestato i soldi, gli ungheresi impiegano il proprio debito come arma di ricatto. Non cedono alle richieste delle istituzioni bancarie internazionali, e cercano invece di riportare la banca centrale sotto il controllo della politica.

Eppure, in questo modo Budapest rischia di soddisfare solo il populismo, più che le vere necessità del paese. Il governo di Orban può contare su una maggioranza di due terzi, che consente di attuare rapidamente cambiamenti costituzionali. Prima della Banca Centrale Ungherese, il governo ha attaccato la Corte Costituzionale, rimuovendo il suo presidente; ne ha poi ridotto i poteri. Ha creato anche un organismo di controllo sui media a nomina governativa, e ha imposto la nomina di personaggi filo-governativi a capo della Corte dei Conti e del Consiglio Fiscale.

Simili decisioni non esprimono l’indipendenza di un popolo o la sua libertà, ma sono solo indice di nazionalismo strisciante. Nelle democrazie gli organismi di controllo devono essere indipendenti dalla politica: quando ciò non avviene – e noi lo sappiamo bene, così come la Russia – l’economia e il diritto cessano di funzionare. Orban ne è sicuramente cosciente: ma tanto vale sfruttare il momento, tra maggioranza parlamentare e frenesia popolana, per intercettare consenso e assicurarsi ancora anni di potere.

Il governo ha percepito che la stagnazione stava portando all’estremizzazione del sentimento elettorale. Ne è indice l’andamento di un partito di estrema destra, lo “Jobbik”, che è il terzo del paese e nelle ultime elezioni nel 2010 ha preso il 17% dei voti, conquistando 47 seggi. Il suo programma è simile a quello della Lega Nord più pecoreccia, borgheziana-gentiliniana, omofobica e nazionalista-localista, solo che al posto dell’epica anti-immigrati c’è una forte opposizione all’ebraismo e ai Rom – oltre a riferimenti ancestrali neo-fascisti, con divise, stemmi e slogan.

La “guardia ungherese” del partito Jobbik (Afp)

Lo Jobbik è un partito popolare: ascoltando i suoi sostenitori, formule di pensiero e parole particolari emergono con frequenza ossessiva. Sarà che forse gli adepti subiscono un’opera costante di indottrinamento, da parte di una leadership di docenti universitari e intellettuali dedicati, definendo un’altra differenza con la Lega Nord. Si blatera contro la globalizzazione, contro il commercio in mano a rom ed ebrei, contro il “moralismo” e il “falso pudore”.

Il governo di Orban ha compreso le istanze del popolo di Jobbik e inglobato nel suo programma elementi fortemente nazionalisti. Il rischio, a questo punto, non è solo economico, ma anche sociale. La situazione può essere paragonata a quella delle tensioni neonaziste nella Germania Est degli anni Novanta. Anche in quel caso c’era necessità urgente di riformare il sistema economico dei Länder orientali, e anche in quel caso un partito, l’NPD, ha intercettato le istanze nazionaliste localiste. Solo che al governo c’era Helmut Kohl, che non ha mai consentito ai vaneggiamenti dei nuovi nazisti di entrare a far parte dell’agenda del Bundestag.

Le tensioni rimanevano fuori dal parlamento: al posto dei rom dello Jobbik, c’erano gli immigrati turchi, anch’essi colpevoli di “non volersi integrare”. Ma la Germania di Kohl aveva il vantaggio di poter contare sul motore produttivo occidentale-meridionale per contrastare la spinta estremista dell’Est. Alla fine, l’NPD non è mai diventato una forza parlamentare vera, ed è stato confinato al limite tra illegalità ed emarginazione parlamentare.

Tutto questo manca in Ungheria. Anzi, Orban ha avuto successo nelle sue politiche estremiste, così tanto da succhiare consenso anche allo Jobbik. Il partito neofascista ha reagito intensificando le campagne di “lotta” contro le minoranze rom, con dimostrazioni e la fondazione di veri e propri centri di riservisti para-militari. Il nazionalismo populista a livello economico è diventato appannaggio esclusivo del governo di Orban, con la coalizione del suo partito “Fidesz” insieme ai Cristiano-Democratici.

Allo Jobbik rimangono solo le battaglie razziste che in parlamento rimangono ancora impresentabili. Ma forse, proprio qui è il problema: le decisioni scellerate del governo faranno male all’economia, Orban potrebbe perdere consensi, e gli elettori potrebbero rivolgersi ai nazionalisti che non si sono compromessi con l’attività parlamentare: lo Jobbik è sulla rampa di lancio per il successo politico. Nella crisi economia germoglia il seme del nazionalismo estremista. 

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