Unicredit, le fondazioni si preparano all’addio

Unicredit, le fondazioni si preparano all’addio

Nessuna tra le fondazioni azioniste di Unicredit lo dice ancora apertamente. Ma dopo i primi informali sondaggi delle banche d’affari che gestiranno l’aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro, c’è chi lo ammette in privato. Secondo quanto apprende Linkiesta da fonti vicine alle operazioni, la ricapitalizzazione segnerà un punto di svolta radicale: l’assetto di governo della banca è destinato a cambiare. Magari attraverso la fusione con un gruppo bancario internazionale, o la definitiva “germanizzazione” di Piazza Cordusio, tramite l’avanzata di nuovi soci istituzionali tedeschi.

Scenari futuri, certo. Ma di questo si discute. Ipotesi che si stagliano sullo sfondo dell’aumento di capitale. C’è chi prefigura anche di uno spezzatino, in cui qualcosa potrebbe finire anche a Intesa Sanpaolo. Ad ogni modo, chi pensava che mandato via Alessandro Profumo, l’ex amministratore delegato (uno degli 80 soci de Linkiesta), che ha costruito il gruppo così come è oggi, tutto il resto potesse rimanere immutato, si deve ora misurare con la fase acuta della crisi.

Unicredit si è scoperta debole, anzitutto dal punto di vista patrimoniale. L’ultima trimestrale del gruppo ha fatto emergere una perdita di valore dell’attivo di 10 miliardi: l’entità delle svalutazioni sulle acquisizioni portate a termine negli ultimi 5-6 anni da Profumo. Pesante è stato l’effetto della campagna acquisti 2007: Ucraina, Kazakhstan e Capitalia.

Anche l’assetto manageriale, tutto nuovo e per nulla rodato, si è misurato con una realtà informe, indominabile a quelle condizioni. Il gruppo ha infatti dei team manageriali domestici reputati buoni o discreti nei 22 paesi in cui è presente, ma manca di una prima linea capace di navigare nei marosi della crisi finanziaria globale. Manca, soprattutto, una vera cabina di regia. Dall’inizio di quest’anno sono emersi non pochi problemi nella gestione della liquidità e nella capacità di relazionarsi con i mercati. Sia fra le banche d’affari sia fra le autorità di vigilanza si sta facendo strada l’idea delle nozze riparatrici. E le fondazioni italiane, che per anni sono state attente a difendere il loro ruolo centrale nella governance di Piazza Cordusio, se ne stanno facendo una ragione. 

Ma allora perché sottoscrivere l’aumento di capitale e non procedere subito a passare la mano? Il punto è che con Unicredit così debole a livello patrimoniale un’operazione di aggregazione è difficile. Non ci sono più banche così robuste da poter digerire in un solo boccone un concorrente in difficoltà. Una fusione di questa portata comporterebbe comunque rischi di esecuzione elevatissimi. Perciò, finché Piazza Cordusio non dà adeguate garanzie di solidità patrimoniale, nessuno si fa avanti. Una buona dote patrimoniale, d’altra parte, consentirebbe di negoziare meglio le nozze.  

Lo schieramento di banche internazionali per garantire il collocamento dell’aumento di capitale è imponente: Bofa Merrill Lynch e Mediobanca, Bnp Paribas, Credit Suisse, Deutsche Bank, Hsbc, Jp Morgan, Rbc, Société Générale, Ubs, Ing, Royal Bank of Scotland, Santander e Banca Imi (Intesa Sanpaolo). Altrettanto forte è la pressione sulle fondazioni perché sostengano l’operazione. A costo di indebitarsi con le banche. Tutte insieme potrebbero garantire infatti quasi 1 miliardo di euro, il 13% dei 7,5 miliardi complessivi: 4,2% è la quota della Cariverona, 3,3% quella della Crt, 2,9% quella di  Carimonte; il resto è diviso fra gli enti più piccoli (Cassamarca, Bds e CariTrieste). 

Ma per le fondazioni non è una scelta a cuor leggero. Il loro compito istituzionale è proteggere il patrimonio e incrementarlo (e su questo sono già palesemente in fallo) e distribuire risorse al territorio. Non certo arrischiarsi in operazioni ad alta leva finanziaria. Su tutte aleggia, poi, lo spettro della Fondazione Mps che è rimasta strozzata in un’operazione analoga: a giugno si è infatti indebitata per sottoscrivere l’aumento di capitale dell’omonima banca senese, ma con il crollo delle quotazioni ha bruciato il patrimonio. L’ente guidato da Gabriello Mancini è gravato da oltre un miliardo di debiti. E non ha più le forze per seguire la banca nell’ulteriore ricapitalizzazione da 3,2 miliardi chiesta dall’Autorità bancaria europea (Eba). 

Le banche d’affari hanno però già confezionato una loro tipica soluzione. Secondo quanto Linkiesta ha appreso da fonti vicine alle maggiori fondazioni azioniste di Piazza Cordusio, i banchieri di Merrill Lynch avrebbero prospettato la possibilità di sottoscrivere l’aumento ricorrendo a un finanziamento bancario, garantito da pegno sulle nuove azioni ma con la protezione di un’opzione put, con cui il detentore acquista il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un titolo a un dato prezzo d’esercizio (in inglese strike price). Così, se dopo l’aumento il prezzo delle azioni dovesse scendere, la fondazione potrebbe esercitare l’opzione put e vendere le azioni al prezzo prestabilito, chiudendo il prestito senza perdite. L’opzione sarebbe insomma una “polizza” contro eventuali ribassi. Ma come tutte le polizze comporta il pagamento di un premio commisurato al rischio.

Dove trovare i soldi per l’acquisto di “put”, che oggi non sono certo a buon mercato? La finanza non pone limiti e gli investment banker  hanno una risposta per tutto: vendendo delle opzioni di acquisto (call) sull’intero pacchetto posseduto.  L’opzione call funziona al contrario di una put: in caso di ripresa delle quotazioni, infatti, il detentore della call esercita l’opzione di acquisto e la fondazione è costretta a cedere al prezzo prestabilito. Su questa struttura, però, non c’è da farsi troppe illusioni. Per riuscire a finanziare l’acquisto della protezione put, infatti, le opzioni call dovrebbero essere strutturate in modo da non essere, come si dice in gergo, troppo out the money (cioè prive di convenienza a esercitarle) e quindi di scarso valore per l’eventuale acquirente. Il prezzo di esercizio verrebbe perciò fissato abbastanza vicino alle quotazioni correnti: ma così facendo la fondazione si priverebbe della possibilità di beneficiare delle prospettive di crescita del titolo. 

Dentro le fondazioni, specialmente quelle più piccole, il meccanismo proposto da Merrill Lynch non ha suscitato troppi entusiasmi: troppo macchinoso. «È molto più semplice sottoscrivere quello che si può con le poche risorse che abbiamo e per il resto vendere i diritti di opzione sull’aumento», osserva un esponente di un’ex cassa di risparmio, oggi fondazione. Ma più è bassa l’adesione dei soci stabili all’aumento, più arduo è il lavoro delle banche del consorzio, anche se potranno contare sull’adesione già confermata della Banca centrale della Libia (socia al 4,9%) e forse di quella del fondo sovrano dell’Emirato di Abu Dhabi (4,99%), Aabar, con cui sono in corso trattative. Per questo si ipotizza un aumento a forte sconto: stando alle prime indicazioni fornite alle fondazioni, il prezzo di emissione delle nuove azioni potrebbe essere fissato a 0,36 euro. Livello che comporterebbe l’emissione di un quantitativo di nuove azioni lievemente superiore ai 19,2 miliardi di titoli già in circolazione con un effetto fortemente diluitivo.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter