Il destino è segnato, Monti ha detto no ai Giochi Olimpici di Roma 2020. Motivi superiori, motivi economici, dettano la linea del governo. Paura di sforare con i conti, paura che quel momento straordinario di afflato sportivo si trasformi nell’anticamera di un default (come lo fu per la Grecia).
Sarà. Qualche giorno fa ci eravamo gettati, con la foga necessaria, perché l’ipotesi di far saltare la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020 potesse rimanere solo un pensiero bizzarro del nostro (pur) amato Presidente del Consiglio. Al quale fa certamente molto onore la riconosciuta sobrietà che egli oppone alle nostre dissolutezze, ma, parimenti, la medesima non può diventare un’imposizione per regio decreto sull’intero appannaggio emozionale degli italiani. Perché le Olimpiadi, caro professore, sono (ancora) un’emozione.
Le ragioni per cui Monti sta pensando a un golpe sportivo si possono racchiudere in tre grandi gruppi. Il primo ha stretta parentela, ovviamente, con i conti pubblici. Fatte le debite misure, la commissione di compatibilità finanziaria parla di un impegno da otto miliardi di spesa, di cui soltanto 3,5 rientrerebbero tra sponsor, biglietti, pubblicità e diritti tv. La differenza sarebbe compensata da maggiori introiti fiscali.
La seconda ragione ci interroga su ciò che di cattivo abbiamo fatto in passato. È praticamente tutto, da quei Mondiali ’90 che hanno lasciato soltanto macerie, per arrivare ai Mondiali di nuoto del 2009 sui quali si sono aperte voragini giudiziarie (come ricorda Sergio Rizzo, la città sportiva di Calatrava è rimasta un sogno e ci siamo salvati con i vecchi impianti del Foro Italico). Il terzo e forse più grande problema riguarda l’inadeguatezza di Roma, una delle città meno moderne del mondo, che ha persino orrore della modernità, né – peraltro – la minima cultura per comprenderla (ricordare, al proposito, cosa disse il sindaco Alemanno dell’Ara Pacis di Meier: meglio abbatterla. Ma si può?).
Pur con questi fardelli sul groppone, ciò che appare davvero insostenibile, nell’ipotesi caldeggiata da Monti, è l’idea depressiva della società. L’idea che si debba rinunciare (badate bene, da qui a otto anni) a un evento di incalcolabile straordinarietà, ma, soprattutto, l’aver valutato che un’opzione di questa portata debba essere vissuta come un’angoscia e non come una incredibile risorsa per il Paese. Sono queste, se colte, le classiche occasioni d’oro che si danno a una nazione in difficoltà, in cui far convergere le migliori eccellenze per mettere in sicurezza la credibilità di un’intera operazione. E se ci è concesso provocare un po’, ma poi neanche tanto, a Roma non andrebbero sottratti i Giochi, bensì la sua gestione. Personalmente siamo per un pool di giapponesi (o anche di catalani), ma non crediamo che saremo accontentati.
Sappiamo che Gianni Letta era l’uomo prescelto. È il Presidente onorario del Comitato promotore. Non era una buona cosa. Non se ne fa qui una questione morale, che nel caso non esiste, ma ancora una questione di modernità. La modernità che serve nel caso dell’organizzazione di un’Olimpiade è fatta da due elementi: la velocità di pensiero (e dunque di esecuzione) e la visione. Sono due virtù che mancano totalmente nel patrimonio genetico del nostro, caro, Gianni Letta, che invece può vantare il primato della più inattaccabile «conservazione» politica e istituzionale della nostra storia moderna. Le sue conoscenze, i suoi rapporti, i suoi servigi peraltro inappuntabili, il suo modo di tessere mondi diversi, la sua infinita incapacità a emozionare chicchessia rispetto al mondo che cambia e che progredisce, ebbene tutto questo porta a concludere che è l’uomo sbagliato al posto sbagliato. Ma a questo punto, è ormai una questione di secondo piano.
È istruttivo, per chi vive a Roma, farsi un giretto dalle parti dell’Auditorium di Renzo Piano, che affianca proprio il villaggio olimpico del ’60. Per quasi mezzo secolo, quella zona è stata dimenticata da dio e dagli uomini, quei casermoni non particolarmente attrattivi dove dormivano gli atleti sono rimasti una specie di monumento nel deserto e soltanto da qualche anno, grazie alla nuova struttura multimediale che ha fatto convergere lì molta gente, il quartiere ha ripreso vita, sino a essere considerato, magari con un filo di temerarietà, anche un po’ “cool”.
La bellezza di un’Olimpiade inorgoglisce un Paese per tutta la sua durata, ma poi gli effetti si perdono in un tempo relativamente breve. L’occasione storica, invece, è per la città che le ospita, a patto che la semina olimpica produca buoni risultati negli anni a venire. Visitare altre città per una dimostrazione pratica.
Per tornare al nostro amato Professore. In una cronaca neanche tanto irriverente, ma neppure piegata com’è d’abitudine oggi sui giornali, Michele Brambilla ha scritto sulla Stampa che Monti «veste bruttissimi Facis». L’espressione era perfetta per definire una certa anti-modernità da studioso. Anti-modernità rispetto ai meccanismi mentali che oggi portano uomini e donne di certe professioni a ragionare velocemente sui mondi che verranno, di cui magari oggi abbiamo sotto gli occhi soltanto particelle infinitesimali. Togliere a Roma (ma Roma comunque non le avrà) la possibilità di ospitare un evento di accecante bellezza come sono le Olimpiadi non è un atto di protervia politica, è la secessione dal mondo.