Con un’autorizzazione negata finì la Prima Repubblica

Con un’autorizzazione negata finì la Prima Repubblica

«Non so se siamo in mezzo al guado o in mezzo al guano». È il commento di Augusto Barbera, pidiessino (in quella fase il partito si chiamava così) subito dopo il voto parlamentare che assolve Bettino Craxi, il 29 aprile 1993. Se fosse necessario fissare una data di morte della prima repubblica, forse proprio quella sarebbe la più indicata. La Camera dei deputati deve votare l’autorizzazione a procedere contro l’ex segretario del Psi, Bettino Craxi, coinvolto nell’inchiesta Mani Pulite. L’esponente socialista, che ha ricevuto una ventina di avvisi di garanzia, pronuncia il celebre discorso della chiamata in correo: dice che tutti i partiti si sono finanziati con le tangenti, quindi tutti sono colpevoli, «compresi quelli che qui dentro fanno i moralisti», osserva (il riferimento è all’ex Pci che riceveva finanziamenti dall’Urss) e afferma che i socialisti sono responsabili nella stessa misura in cui lo sono gli altri.

Intanto si è formato un nuovo governo d’emergenza, presieduto da un tecnico, Carlo Azeglio Ciampi, ne fanno parte anche ministri del Pds, ed è la prima volta dal 1947 che dei comunisti, seppur ex, entrano a far parte di un governo. Si va al voto parlamentare, che sembra scontato, ma il voto segreto riserva una sorpresa. È il presidente della Camera, Giorgio Napolitano, a leggere il risultato: «Favorevoli 273, contrari 291. La Camera respinge».

«È la bomba che pochissimi si aspettavano», scrive Fabio Martini nella Stampa del 30 aprile, «Craxi è salvo, almeno per la prima imputazione, quella di corruzione. La sorpresa è talmente grande che per qualche attimo c’è un brusio indistinto che fatica a diventare frastuono. Poi, i primi a insorgere sono i leghisti: scattano in piedi e urlano a tutta gola: “ladri, ladri!”. Il capogruppo Formentini è un ossesso e ritma: “Vergogna, vergogna!”. Sono le 19,14 e per quindici minuti nell’aula di Montecitorio accade l’inimmaginabile: nelle altre cinque votazioni per altrettante autorizzazioni, Craxi la scampa per altre tre volte e sull’onda di quel voto l’aula diventa bollente».

Le conseguenze sono immediate: la lira precipita contro marco e dollaro, manifestazioni spontanee si formano un po’ in tutta Italia e i neonominati ministri del Pds si dimettono, tanto da mettere in forse l’esistenza stessa della compagine guidata da Ciampi. È un Augusto Minzolini d’altri tempi a raccontare nel quotidiano torinese: «Achille Occhetto [segretario del Pds, ndr] nero in volto per i voti della Camera contro le autorizzazioni a procedere per Bettino Craxi, annuncia sotto i riflettori della sala stampa di Botteghe Oscure l’addio del Pds al primo governo a cui è stato chiamato a partecipare. Durata del gabinetto: meno di 24 ore».

Si dimettono da ministri anche il verde Francesco Rutelli e il repubblicano Giorgio La Malfa. Il presidente del Consiglio Ciampi, che ancora non ha ricevuto il voto di fiducia, e il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si sforzano di tenere insieme la maggioranza che sembra andare in cocci. «Sbigottiti, democristiani e socialisti si affannavano in serata a cercare di calmare il furore dei tre alleati di governo trovati e persi nel giro di poche ore» (Ciampi in ogni caso otterrà la fiducia e il suo governo, il primo della storia repubblicana guidato da un non parlamentare, rimarrà in carica per poco più di un anno, fino al maggio 1994). Umberto Bossi tuona, se la prende con tutti, ma soprattutto con il presidente della Repubblica. «A Milano combatteremo la madre di tutte le battaglie contro Scalfaro», dichiara.

«È evidente, prima di tutto, che si vuole passare un risoluto colpo di spugna sulle imputazioni più serie, scaturite dall’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite. L’atteggiamento di resistenza della Camera appare prima di tutto in contrasto con l’alto messaggio di Capodanno del presidente della Repubblica, che aveva interpretato la volontà di tanti cittadini, contro ogni tentativo di insabbiamento», scrive Alessandro Galante Garrone dalle colonne della Stampa.

Il fondo è del direttore di allora, Ezio Mauro, che poi sarebbe andato a dirigere Repubblica. «Così non si può andare avanti», scrive Mauro, «Ciò che è avvenuto alla Camera è un colpo gravissimo non solo alla residua credibilità della classe politica, ma anche alla svolta richiesta dai cittadini con il referendum e imposta da un risultato plebiscitario». E più avanti: «Deve essere chiaro a tutti che i Parlamento è libero e sovrano: non solo, ma da noi è sempre stato considerato legittimo, anche in questa fase in cui molti, troppi inquisiti siedono su suoi banchi. Ma è altrettanto evidente che il voto di ieri – e più ancora del voto la strategia che lo ha costruito, la psicologia politica che lo esprime – è la strada maestra della delegittimazione». E poi conclude: «Le regole, le nuove regole, riuscivano là dove non era riuscita la politica, obbligando a rinnovarsi, cioè a rilegittimarsi. Ieri la vecchia politica si è presa la sua rivincita, cercando di vanificare la svolta».

La tappa successiva – non parlamentare – sarebbe stata quella del giorno dopo, con i fischi e le monetine contro Craxi all’hotel Raphael.

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1993: quel giorno al Raphael Craxi non uscì dal retro

Certo non gli mancava il fegato, a Bettino Craxi. Gli avevano suggerito di uscire dal retro dell’hotel Raphael, per evitare la folla che assiepava davanti, ma lui non ne aveva voluto sapere. E allora – è la sera del 30 aprile 1993 – la affronta, quella folla. E succede quel che tutti sappiamo: gli tirano le monetine, gli sventolano banconote da 1000 lire urlando: «Prenditi anche queste». Quel giorno un imprenditore amico andò a trovarlo ma, lui sì, preferì uscire dal retro. 

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