Era uno scherzo: Blackrock non ha abbandonato Unicredit. Stando al consueto aggiornamento Consob sui cambiamenti nelle partecipazioni rilevanti delle società quotate del 2 gennaio scorso, il il gigante americano del risparmio gestito era sceso dal 4,024 all’1,71% di Piazza Cordusio, in data 27 dicembre. Oggi invece il regolatore fa sapere che Blackrock, lo scorso 6 gennaio, ha inviato una rettifica confermando la sua quota al 3,09 per cento. Una quota formata da molteplici fondi che evidenziano quotidianamente dei piccoli scostamenti in base all’operatività dei loro portafogli, poi compensati a livello aggregato.
E qui nasce l’inghippo, poiché – spiegano da Blackrock – l’ufficio legale centrale della società ha erroneamente preso un’operazione sul capitale per una riduzione della partecipazione complessiva nell’istituto guidato da Federico Ghizzoni. Una vicenda incredibile. La colpa, insomma, sarebbe dell’ufficio legale presso il quartier generale newyorkese della società, incaricato di comunicare a Consob. La quale ora sta conducendo degli accertamenti per verificare eventuali violazioni della normativa sull’abuso di mercato – in questo caso si tratterebbe di aggiotaggio.
Dal canto suo Unicredit ribadisce in una nota che la notificazione «non avrebbe dovuto essere effettuata in quanto derivante da una operazione societaria e non da una riduzione della partecipazione detenuta a livello aggregato». «I soliti furbetti anglosassoni» commentano dai corridoi della banca. Sono le tempistiche a non convincere: sebbene la rettifica sia arrivata il 6 gennaio, quindi prima dell’avvio del periodo di sottoscrizione dell’aumento di capitale, sono in molti a ritenere che gli americani abbiano venduto lunedì per poi ricomprare ieri a sconto, visto il rimbalzo di azioni e diritti andato in scena ieri. Una cosa però è certa: la notizia dell’uscita di un socio rilevante nella compagine azionaria della banca era stata interpretata da analisti ed esperti come un brutto segnale, che può aver contribuito alle ondate di vendite che hanno affossato il titolo nei giorni immediatamente precedenti al via dell’operazione.
Dopo la debacle di lunedì, intanto, prosegue il rialzo tanto delle azioni quanto dei diritti, che hanno chiuso rispettivamente +6,35% a quota 2,57 euro e +37,18% a 1,16 euro in un contesto sostanzialmente piatto (Ftse Mib +0,25%). Questo mentre prosegue il roadshow dell’amministratore delegato Federico Ghizzoni a Londra. L’agenda è fitta: ieri Ghizzoni ha incontrato gli investitori istituzionali mentre oggi non è escluso che abbia visto i rappresentanti del fondo sovrano cinese. Sul fronte delle fondazioni, invece, in giornata è arrivato il sì di Cassamarca, che si avvalerà di un finanziamento SocGen attraverso un complesso meccanismo di opzioni put e call, e della fondazione Manodori, che però scenderà dal 0,79 allo 0,55 per cento. Lo stesso Ghizzoni, si legge in un documento di internal dealing, ha sottoscritto 34mila azioni per un controvalore di 66mila euro, mentre la moglie, Monica Cornacchia si è accontentata di mille azioni. Notizie che hanno generato un effetto distensivo dopo le tensioni di inizio settimana.
«Con l’aumento di capitale Unicredit sarà una banca molto più forte e capace di sostenere l’economia» ha detto oggi il numero uno dell’Eba, la superauthority bancaria europea, nel corso di un’audizione presso la Commissione Finanze della Camera. Enria liquida i rilievi dell’Abi, sostenendo che «sarebbe sbagliato» assecondare le richieste dell’associazione presieduta da Giuseppe Mussari. «Se la ricapitalizzazione venisse cancellata», osserva Enria: «Gli investitori continuerebbero a percepire le banche come deboli e maggiore incertezza circonderebbe il sistema bancario europeo. I problemi sul lato della raccolta, che dipendono anche dai livelli di capitale considerati inadeguati rispetto ai rischi, resterebbero inalterati» E la conseguenza sarebbe un deleveraging «ancora più forte» dell’attuale, come dimostrano i depositi overnight presso la Bce, che stanotte hanno toccato un nuovo record a quota 485,9 miliardi di euro così come gli 1,9 miliardi presi a prestito utilizzando la finestra della marginal lending facility.
In questo difficile contesto gli istituti di rilevanza sistemica come Unicredit per Enria «dovranno rispettare requisiti ancora più stringenti e dovranno operare in modo da rendere possibile una loro uscita dal mercato in situazione di crisi, senza la necessità di interventi a carico delle finanze pubbliche», anche se l’authority si rende conto che sarà un passaggio difficile, che potrà incidere sugli assetti di controllo delle banche e in alcuni casi anche richiedere interventi di sostegno pubblico».
Per Enria, che ha detto di non aver ricevuto dai governi nazionali nessuna richiesta di proroga in merito al termine ultimo entro cui innalzare i requisiti di capitale, cioè il prossimo 30 giugno, la perdita di valore delle banche non è dovuta alla coda lunga delle richieste Eba ma all’aumento dei Cds, derivati che fungono da polizza assicurativa contro il rischio di default sui titoli di Stato, di cui sono pieni i bilanci degli istituti di credito italiani. Un dato non secondario emerso dall’audizione è che l’Eba sta studiando le differenze negli attivi ponderati per il rischio all’interno dei Paesi europei. «Trovo mal posta la critica circa l’iniquità delle misure che abbiamo adottato alla luce delle diversità delle prassi di vigilanza esistenti in Europa» ha detto Enria in proposito.
L’Abi aveva a lungo criticato nei mesi scorsi l’Eba proprio su questo punto, cioè sull’obbligo di calcolare i bond a prezzi di mercato ai fini della ponderazione del capitale primario Tier 1, al contrario di quanto previsto da Bankitalia, che invece consente la sterilizzazione delle minusvalenze, il cui impatto sul conto economico è trimestrale. Le regole, quindi, cambieranno ancora. E c’è da scommettere che saranno più stringenti per tutti.
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