Con l’occupazione di binari a Palermo e Sestri Ponente, i lavoratori Fincantieri tornano a protestare contro il piano per il futuro di Fincantieri. Prima di Natale si era tenuto un incontro al Ministero del Lavoro fra i vertici dell’azienda, il Governo e i sindacati, con oggetto il piano di ristrutturazione della principale industria navalmeccanica nazionale (a intero controllo statale).
Fim e Uilm hanno dato il placet al progetto dell’azienda, che prevede, durante il biennio 2012-2013, un utilizzo medio di cassa integrazione straordinaria per 2 mila 233 lavoratori (con un picco eventuale massimo di 3 mila 670), 1.308 esuberi, 102 milioni di investimenti (non meglio dettagliati) in ricerca e sviluppo del prodotto. Non altrettanto ha fatto Fiom, denunciando la volontà (implicita) di Fincantieri di arrivare alla chiusura di alcuni impianti (Sestri Ponente e Castellammare di Stabia) o comunque ad un loro netto ridimensionamento e invocando l’intervento di Passera (che incontrerà i sindacati fra il 9 e il 15 gennaio).
Questi dati – cui sono seguite reazioni spesso isteriche di sindacati, politici locali e media – sono obiettivamente spaventosi (Fincantieri impiega 8 mila 300 persone), ma hanno origini lontane nel tempo e cause evidenti, che, tipica usanza nostrana, per anni si è voluto ignorare in nome di un ingiustificabile equilibrio politico-sindacale e che meritano un approfondimento per valutare la situazione in modo più oggettivo.
Per cominciare occorre considerare che la navalmeccanica europea, che nel 1981 si aggiudicava il 33% degli ordini per nuove navi a livello mondiale, oggi si attesta al 6% (questi e i successivi dati sono stati ricavati da documentazione varia di Fincantieri, Assonave, Cesa-Community of European Shipyards Associations e da alcune analisi delle testate specializzate Lloyd’s List e Fairplay). La quota di mercato europea erosa in questi trent’anni è sostanzialmente passata alla cantieristica dell’Estremo Oriente, capace di produrre a prezzi più bassi tutte le tipologie di navi a basso valore aggiunto (portacontainer, petroliere, rinfusiere, etc.), lasciando ai cantieri del vecchio continente solo alcune nicchie, fra cui il settore delle navi passeggeri di alta gamma (navi da crociera e cruise ferries) e il militare, in cui si è specializzata (raggiungendo livelli di leadership mondiale) Fincantieri, oltre ad alcune produzioni molto specializzate relative al comparto estrattivo-energetico.
Gli ultimi quattro anni poi sono stati caratterizzati dal crollo della domanda legato al credit crunch e alla crisi economica. Basti dire che, secondo quanto emerso a fine ottobre all’annuale meeting Jecku (che raccoglie il gotha della navalmeccanica mondiale), fino al 2020 la capacità produttiva della cantieristica navale globale sarà doppia rispetto alla domanda di nuove costruzioni. Dal picco massimo del 2007 di 85,9 milioni di Tslc (tonnellate di stazza lorda compensata, indicatore stabilito dall’Ocse per misurare la quantità di lavoro necessario per costruire una nave, sulla base della stazza, della tipologia e delle dimensioni) si è arrivati nel 2010 a meno di 38,9 milioni, una riduzione del 55%. Nel giro di tre anni la domanda si è quindi più che dimezzata (tutti i dati qui).
Se poi si considerano le diverse tipologie di navi, si nota che anche in ambito high tech (gasiere, chimichiere) la cantieristica orientale riveste già un ruolo da protagonista, mentre, per ciò che concerne le crociere, appannaggio finora totalmente europeo (anche se due dei maggiori gruppi, in Francia e Finlandia, sono già in mano ai coreani di Stx), nel 2011 sono arrivati i primi ordini per il cantiere giapponese Mitsubishi Heavy Industries e in Cina e Corea stanno prendendo corpo compagnie crocieristiche locali intenzionate ad ordinare “in casa”.
Fincantieri di Ancona (foto fincantieri.it)
Castellamare di Stabia
Genova Sestri
Il risultato è che in Europa la perdita occupazionale negli ultimi anni è stimata in circa 50 mila unità, ovvero il 27% dei 180 mila posti di lavoro direttamente riconducibili all’industria navalmeccanica, senza contare le ripercussioni sull’indotto. E che, stando ad un complesso e recente studio di Assonave, «solo 21 cantieri europei su un totale di 193 (19% della capacità produttiva) possiedono un carico di lavoro accettabile e presentano quindi un basso livello di rischio (di non sopravvivenza, ndr)».
Non è quindi casuale che negli ultimi 10-20 anni alcuni paesi europei, anche di grande tradizione, abbiano deciso di abbandonare tout court la navalmeccanica (il caso più eclatante è quello inglese) e che altri abbiano optato per una netta razionalizzazione. Fra i principali competitor di Fincantieri Stx France, che ha un unico sito produttivo, negli ultimi anni ha ridotto i dipendenti da 4 mila 900 a 2 mila 300, Stx Finland è passata da 3 a 2 cantieri e da 5 mila 500 a 2 mila 900 lavoratori, mentre la tedesca Meyer Werft impiega 2 mila 500 persone in un unico stabilimento.
In termini occupazionali Fincantieri è invece rimasta quasi invariata fino al 2008 con 9 mila 100 dipendenti. Dal 2008 ad oggi si è scesi a 8 mila 300, con il solo blocco del turnover (senza licenziamenti), divisi fra ben 8 stabilimenti. È vero che, rispetto ai suddetti concorrenti, Fincantieri opera anche in ambito militare (a questo comparto si è deciso recentemente di dedicare in via esclusiva i cantieri di Muggiano e Riva Trigoso) e di riparazioni/riconversioni (a Palermo), ma per il core business (crociere e traghetti, settore quest’ultimo in piena crisi ovunque) dispone addirittura di cinque siti (Sestri Ponente, Castellammare, Ancona, Marghera e Monfalcone); il che, considerato il trend della domanda e le previsioni dell’azienda per il breve-medio periodo (nel triennio 2008-2010 Fincantieri lavorava 13 milioni di ore l’anno, nel 2011 sono state 7 e nel 2014 saranno 9) rappresenta una chiara sovra-capacità produttiva.
La domanda dunque è perché Fincantieri in questi ultimi anni non si è adeguata all’evoluzione (involuzione) del mercato? Naturalmente molti sono i fattori, ma certo è che lo status pubblico dell’azienda ne ha accentuato fatalmente le rigidità. Gli esempi non mancano, dalle assurde commesse statali (i traghetti veloci di Tirrenia) per far fronte al calo produttivo dei primi anni Novanta all’ottusa opposizione sindacale (Fiom in testa) al progetto di quotazione, giunto quasi a compimento nel 2007, passando per le levate di scudi ogniqualvolta il management dell’azienda abbia sollevato problematiche “marchionniane” o abbozzato una razionalizzazione dell’eccessivo numero di stabilimenti.
Guardando avanti e detto tutto ciò, occorre una volta per tutte chiarire che, considerati l’andamento del mercato globale e la dinamicità della concorrenza diretta europea ed asiatica, non è pensabile (a meno che non si accettino condizioni lavorative asiatiche) che Fincantieri possa restare quello che è stata negli ultimi trent’anni. Basti considerare che, mentre nel 2007 sono state ordinate 16 navi da crociera, di cui 8 a Fincantieri, nel 2011 sono state solo 10, di cui 3 a Fincantieri (il cui appeal non è diminuito in senso assoluto, ma in senso relativo per la crescita di quello altrui, sostenuto ora da una maggiore flessibilità/produttività del lavoro, ora da un più facile accesso al credito, etc.).
E neppure è pensabile – come vorrebbero molti – un intervento statale per il mantenimento dello status quo, per evidenti ragioni economiche prima ancora che giuridiche (nel tentativo di addolcire la crisi della navalmeccanica persino l’Ue abbozza lievi soluzioni di supporto pubblico). Non è prorogabile indefinitamente una situazione in cui più di un terzo della forza lavoro non ha da lavorare e neanche i 125 milioni che potrebbero essere destinati a Fincantieri dalla Bei, la Banca europea per gli investimenti, sarebbero risolutivi.
Anzi, continuare a far finta di niente è dannoso, non c’è Passera che tenga, la navalmeccanica occidentale è cambiata ed è necessario prenderne atto e modificare la nostra, prima che sia tardi. Peraltro, sebbene se ne parli molto poco, vale la pena ricordare che la crisi è una realtà che il settore privato ha già toccato con mano: restando solo agli ultimi anni 3-4 anni un paio di cantieri storici (De Poli, Cnp) sono falliti ed altri versano in cattive acque (Visentini e Cantiere Navale di Trapani), per non dire della galassia del subappalto Fincantieri (spesso ditte di piccole dimensioni e mono-cliente, che non beneficiano di quasi nessun strumento di ammortizzazione).
Quindi, con buona pace delle amministrazioni locali (spesso le stesse, peraltro – è il caso di Genova –, complici della deindustrializzazione del territorio e dello scarso appoggio alla modernizzazione degli impianti, basti ad esempio citare l’autorizzazione alla costruzione di una marina da diporto davanti alla stabilimento di Sestri Ponente) bisogna accettare, per il bene del Paese nel suo complesso, che Fincantieri concentri la produzione core nei suoi stabilimenti più adatti (Monfalcone e Marghera, con il supporto di Ancona per le crociere, Riva e Muggiano per il militare e Palermo per le riparazioni) a questo scopo (dati i carichi di lavoro, non è ad esempio economicamente sensato – e la committenza non lo accetterebbe – fare un troncone di nave in Liguria e un altro in Veneto, come chiedono alcuni).
Il che non vuol dire che Sestri e Castellammare debbano chiudere, bensì ipotizzare (come Fincantieri del resto ha fatto, chiarendo di non essere interessata alla cessione degli impianti più interessati dalla ristrutturazione) che possano dedicarsi a qualcosa di diverso da quel che hanno sempre fatto (dalle carceri galleggianti alle cosiddette navi “mangiarifiuti”.
Nella consapevolezza però che, per svariate ragioni – valore assoluto della produzione, inadeguatezza degli attuali asset alla produzione seriale, complessità di ingresso di alcuni settori (offshore ed eolico), immaturità di certi mercati (il caso della propulsione a gas delle navi è emblematico) –, i volumi di lavoro non possono e, almeno nel medio termine, non potranno essere quelli degli anni d’oro della crocieristica.
Porto Marghera
Monfalcone
Muggiano
Palermo
Per Tslc si intende tonnellate di stazza lorda compensata, indicatore stabilito dall’Ocse per misurare la quantità di lavoro necessario per costruire una nave, sulla base della stazza, della tipologia e delle dimensioni.