L’augurio di fine d’anno di gran lunga più frequente è stato quello per un 2012 che inizi a risolvere i problemi economici che hanno tormentato il 2011. Lungi da me l’argomentare contro l’ottimismo della volontà, ma i fatti e la logica invitano ad un sobrio pessimismo: questa crisi, che ha già troppi anni per contarli, è destinata a durare ancora parecchio. In alcuni paesi, Italia in testa, ci vorrà la maggior parte del decennio iniziato l’anno scorso per uscirne davvero. Questo ammesso, ma non concesso, che si adottino le politiche e si introducano i cambiamenti che risulteranno necessari e che, va riconosciuto, non sono certo ovvi. La ragione di questo mio pessimismo – francamente, di lunga data – è che le ragioni della crisi non sono finanziarie ma materiali e che quanto vale per l’Italia vale per svariati paesi occidentali, inclusi gli Usa, in misura forse minore ma comunque sostanziale.
Per marcare i termini della mia analisi in modo netto è utile forse esagerarli. Per esagerarli, niente di meglio che semplificare brutalmente un’analisi rispettabile – quella di Olivier Blanchard, capo economista del Fmi – e usarla come uomo di paglia. Che è quello che procedo a fare dopo essermi scusato per l’intenzionale eccesso di semplificazione. Blanchard sostiene tre cose: (i) la crisi che viviamo è di natura finanziaria, (ii) essa si deve in gran parte a mancanza di fiducia, ossia agli animal spirits degli operatori i quali autorealizzano il loro pessimismo, (iii) le politiche fiscali e monetarie possono risolvere il problema ma, per farlo, devono essere “decisive” perché – coerentemente con le teorie degli equilibri multipli basati su sunspots – per far saltare l’economia da un equilibrio “cattivo” ad uno “buono” occorre alterare radicalmente le aspettative degli operatori facendo loro recuperare “fiducia” nel futuro. I lettori scuseranno l’eccesso di virgolettato, ma è obbligatorio. Com’è doveroso riconoscere che condivido ampiamente due parti della diagnosi di Blanchard, anche se non ho ben capito come lui riesca a farle quadrare con il resto di ciò che argomenta. Sono le seguenti: (a) politiche economiche incomplete e farraginose aggravano la situazione perché non riescono a convincere gli operatori economici che si intendono adottare davvero cambiamenti di lungo raggio; (b) ci vorrà parecchio tempo per rimettere in rotta la nave perché, come Blanchard sottolinea citando Angela Merkel, dobbiamo fare a marathon rather than a sprint. Qui gli ultrasemplificati punti di vista divergono ed io mi dedico ad illustrare il mio.
Senza dubbio la crisi mondiale si è manifestata a livello finanziario: eccesso di indebitamento, pubblico o privato fa poca differenza. Mentre negli altri paesi il debito si è venuto formando durante gli ultimi dieci anni circa, quello italiano era precedente come precedenti erano le cause del medesimo: la macchina della crescita economica diffusa aveva progressivamente rallentato sino a fermarsi. Alcuni settori, alcune industrie, alcune componenti della forza lavoro (tipicamente quelle maggiormente qualificate ed educate) continua(va)no a crescere e generare aumenti di produttività ma il resto, un resto sempre più grande, non sembra più in grado di farlo.
In un mondo dove i prezzi reali di svariati beni e servizi aumentano (perché qualcuno innova, spiazzando antichi prodotti, ed altri crescono facendo crescere i prezzi di tutto quanto è offerto inelasticamente) questo rallentamento implica che le condizioni di vita di ampi strati della popolazione stagnano o peggiorano. Da qui nasce sia una domanda di maggiore redistribuzione – la quale, per parziale che possa essere, avvenendo attraverso il canale fiscale ed all’interno di ogni dato paese si trasforma in crescita dei costi e riduzione di competitività per i settori su cui si esercita il prelievo – sia una domanda di politiche fiscali e monetarie espansive.
Le abbiamo avute ed hanno generato crescita del debito pubblico e/o privato. Non è ovvio (e nemmeno rilevante) che tali politiche siano state causate da una volontà redistributiva (come argomenta da tempo Raghu Rajan) o siano invece il frutto una macchina politica a cui conviene reagire con una “espansione” della domanda interna ad ogni rallentamento della crescita. Conta solo che sono avvenute ed hanno portato ad un aumento del debito che richiedeva una diffusa e sostenuta crescita del reddito per venir ripagato. Come abbiamo visto – dagli Usa alla Grecia passando per l’Italia che ristagna dal 2001 o dalla Spagna che, pur crescendo tra 1995 e 2006, lo faceva troppo poco rispetto al debito privato che accumulava – la crescita sperata non è mai arrivata ed il debito è diventato non più sostenibile. Patatrac.
Il rallentamento della crescita era avvenuto in Italia già a partire dalla seconda metà degli anni ’90 ed un decennio, circa, più tardi si è manifestato altrove. La nostra situazione – proprio perché abbiamo smesso di crescere dieci anni prima degli altri ed abbiamo fatto peggio di quasi tutti anche durante gli ultimi tre – è ovviamente più grave della spagnola o della francese, per non parlare della tedesca o dell’americana. Ma vi sono elementi comuni. L’arresto della crescita è dovuto, essenzialmente, ad un fatto brutale: una grossa fetta della nostra forza lavoro non è più in grado di aumentare la propria produttività e di portare sul mercato beni e servizi che possano essere venduti a prezzi competitivi. Già sento più di qualcuno osservare «aveva ragione Tremonti, è la Cina che ci rovina». Errore madornale: Cina e Brasile, ma anche Svezia e Finlandia, crescono indipendentemente da noi e commerciare con questi paesi ci ha evitato di fare ancor peggio di quanto avremmo fatto altrimenti. Il protezionismo non avrebbe aumentato la produttività italiana ma solo impedito di acquistare a prezzi minori quei beni che abbiamo importato e di vendere quanto siamo riusciti ad esportare.
La stagnazione è un problema di chi non cresce perchè le proprie condizioni strutturali glielo impediscono. Tali condizioni strutturali sono il frutto di decenni di scelte erronee e richiedono, nel migliore dei casi, molti anni di sforzo paziente per essere alterate. Per questo, manovre recessive o meno, il futuro non è roseo: perchè non bastano né semplici tagli alla spesa né, tantomeno, aumenti delle imposte per rendere produttivo chi non lo è. Occorre ben altro, ma non sembriamo volerlo intendere. Auguri, dunque: ne abbiamo bisogno.
*Department of Economics – Washington University in Saint Louis