Nel primo giorno dell’aumento di capitale, il crollo borsistico di Unicredit, meno 12,8%, è proseguito senza troppi riguardi né per le magnifiche sorti progressive promesse dal management della banca né per l’imponente schieramento del consorzio di garanzia. Oggi c’è un po’ di rimbalzo, ma nella sostanza cambia poco. In una settimana è stato perso più del 60 per cento.
Si susseguono alti lamenti e campane a martello per i rischi di scalata e se ne dà la colpa alle regole “sbagliate” di ripatrimonializzazione imposte da autorità europee “cattive”. Ma, anziché continuare ad abbaiare contro la luna, conviene farsene una ragione: la ricapitalizzazione andava fatta. Andava fatta prima ancora che lo richiedesse l’Autorità bancaria europea. Non è un caso che la stima di un fabbisogno patrimoniale di 7 miliardi circolasse già alla fine del 2010.
Se ci si è arrivati solo adesso, è solo perché le fondazioni azioniste di Unicredit, pensando che la buriana sarebbe passata presto, hanno preso tempo e il nuovo a.d. Ghizzoni le ha assecondate. Colpevolmente. Del resto, le fondazioni (non ancora i loro vertici) stanno pagando in abbondanza l’errore: si sono bruciate un patrimonio. E se in sede comunitaria sono prevalse regole sfavorevoli alle banche italiane, anziché recriminare contro le banche della City, bisognerebbe chiederne conto all’Abi e all’evanescente capacità lobbistica dei suoi vertici, che hanno preferito coltivare intese cordiali a Roma anziché drizzare le antenne a Bruxelles e a Londra.
Ai prezzi di chiusura di ieri, 2,28 euro per azione, Unicredit vale 13,2 miliardi di euro (2,28 x 5,7 mld di azioni post-aumento). Il valore include già i 7,5 miliardi della ricapitalizzazione. In Borsa, quindi, la banca di Piazza Cordusio viene prezzata a circa un terzo del patrimonio netto tangibile (escluso avviamenti, marchi, etc.). Di fronte a queste valutazioni, e lasciando perdere tesi cospirazioniste – del genere: la speculazione vuole portarci via le nostre banche a prezzi di saldo –, c’è poco da fare: nel mondo non c’è molta gente che muoia dalla voglia di investire nell’Eurozona. Ancora meno nelle banche. Meno che mai in una banca dell’Eurozona, e per di più made in Italy.
Ma conviene chiarire alcuni equivoci. La banca di Piazza Cordusio avrà in ogni caso i 7,5 miliardi di cui ha bisogno. Questa è una buona notizia in prima battuta per i depositanti del gruppo Unicredit, e poi anche per gli obbligazionisti. Il problema, semmai, è delle 27 banche del consorzio che si sono impegnate a garantire l’eventuale gap di sottoscrizioni, fra cui Bank of America/Merrill Lynch e Mediobanca. Ma fanno il loro lavoro, per il quale, si dice, incasseranno un compenso complessivo di 250 milioni. Ovviamente, un eventuale inoptato, con conseguente accollo delle azioni di nuove emissioni da parte delle banche garanti, non è auspicabile. Prima o poi dovrebbero liberarsene, e questo affosserebbe, oltre che i loro bilanci, anche le quotazioni di Unicredit chissà per quanto tempo a venire.
C’è anche da sperare che le autorità di vigilanza, Banca d’Italia e soprattutto la Consob, non cedano troppo alla “ragion bancaria di Stato”: verificando puntualmente che, pur di centrare l’obiettivo, non si raccontino troppe favole allo sportello, forzando le scelte di investimento di famiglie già piuttosto provate dalle crisi. Lo stesso vale per casse previdenziali e fondi comuni d’investimento italiani.
Resta aperta la domanda su chi sottoscriverà l’aumento, e quindi su quale sarà la compagine azionaria della banca. Probabilmente, lo sapremo solo alla fine. Il crollo delle quotazioni, e la fuga degli investitori istituzionali “normali” (fondi comuni e fondi pensione), spiana la strada a qualche sorpresa.
Alcune banche del consorzio ed esponenti di Unicredit si stanno dando da fare per convincere i fondi sovrani, veicoli di investimento governativi delle nuove potenze economiche o dei paesi produttori di petrolio (Paesi del Golfo, Norvegia, Cina, Singapore), a diventare azionisti di Unicredit. Ci sarebbero anche i libici, che sono già presenti nel capitale, ma non è ancora chiaro quanto potranno sottoscrivere. Tutto ciò solleva qualche interrogativo sul futuro di Piazza Cordusio, e sul futuro che l’Italia come paese desidera per la sua banca più internazionale.
L’eventuale presenza di fondi sovrani, se sostanziale, offre una grande opportunità. Si tratta di scegliere se gestirla con lungimiranza o se invece subirla, magari innescando dinamiche o contrapposizioni partigiane e/o localistiche che porterebbero alla paralisi strategica e gestionale. Su questo terreno l’Italia sconta un passato prossimo poco invitante. La vicenda Edison è una sintesi perfetta di tutto ciò che non bisogna fare per relazionarsi con investitori esteri. Al contrario, Prysmian racconta una storia di successo.
Occorre mettere in chiaro le regole del gioco e offrire precise garanzie di serietà di governo a chi investe – il che vuol dire rompere in modo drastico con le logiche del passato. Si può (e si deve) pattuire che Unicredit resti intatta nella sua identità di multinazionale bancaria e che si ristrutturi e sviluppi secondo un modello di “pura banca commerciale”, come è peraltro previsto nel piano industriale firmato dall’amministratore delegato Federico Ghizzoni. Si può legittimamente pretendere che il quartier generale resti a Milano, quali che siano le scelte in futuro – un’ipotetica fusione, per esempio, o un cambio radicale del top management, come ci sarebbe bisogno. Si può e si deve garantire che in futuro non si frapporranno rivendicazioni sciovinistiche o strumentali a chiunque voglia investire, nel rispetto della sana e prudente gestione della banche – principio che spesso è stato interpretato a piacimento quando di mezzo c’erano finanzieri graditi, italici o naturalizzati.
Non si può pretendere invece che uno, da Singapore o dal Qatar, rischi centinaia di milioni per “garantire gli equilibri finanziari del capitalismo italiano”, per “difendere l’italianità” e per foraggiare gli amichetti, magari azionisti, a spese di tutti gli altri e della stabilità patrimoniale. Per queste cose, in una banca normale, gli amministratori delegati vanno a casa. Vanno a casa anche quando un ciclo di espansione si chiude, emergono perdite rilevanti e occorre azzerare il cronometro e ripartire. Come sarebbe dovuto accadere a Piazza Cordusio sul finire del 2008 con l’a.d. Profumo, se le fondazioni avessero fatto il loro mestiere. Non perché un amministratore delegato cerca di invogliare nuovi investitori ad entrare in una società quotata, come invece è accaduto due anni dopo.
Ora, ammesso con riserva che all’Italia possa servire una cosiddetta “banca di sistema”, qualunque cosa questo significhi, è fuor di dubbio che non c’è spazio per due. «Con 9.500 filiali e la presenza in 50 paesi – si legge negli spot pubblicitari dell’aumento – Unicredit è il made in Italy nel mondo della finanza… un player globale». E chi sottoscrive, magari in misura rilevante, lo fa «per entrare a farne parte a pieno titolo». Per l’appunto. E di questo bisogna tenere conto in vista di una scadenza impegnativa.
L’11 maggio terminerà il mandato dell’attuale consiglio di amministrazione di Unicredit, presieduto da Dieter Rampl. È un cda a composizione italo-germanica che riflette sostanzialmente gli equilibri nati nel 2005 con l’acquisizione-salvataggio della Hvb, e con una fortissima presenza di esponenti delle fondazioni italiane. È più che naturale che il nuovo consiglio si ridisegni sulla base della futura compagine societaria. L’attesa sul mercato è per una rottura con il passato, per un rinnovamento globale dei volti. Di sicuro, è il cda che deciderà i destini di Unicredit nei prossimi due-tre anni: ristrutturazione, riorganizzazione, management, operazioni straordinarie.
La questione è davvero troppo importante perché sia lasciata alle ambizioni di retroguardia dei Biasi, dei Palenzona, ai giochetti dell’eterogeneo mondo che gravita sull’asse Piazza Cordusio-Piazzetta Cuccia-Generali. O alle astuzie di un Rampl, che era amministratore delegato di una banca (Hvb) finita male e che successivamente si è così ben ambientato a Milano da assecodare tutto quello che passava il convento di Piazza Cordusio, inclusi il primo (inutile) salvataggio dei Ligresti, condotto la scorsa primavera. Nemmeno si può lasciare il destino di Unicredit in balìa degli interessi delle banche d’affari del consorzio, e dei loro progetti buoni solitamente a procurare commissioni, e il resto poi si vede. Diversamente, si rischia di arrivare a spinte e strattoni verso uno spezzatino.
Perciò, parafrasando la pubblicità dell’aumento, si può dire che c’è bisogno di azioni concrete: da parte del ministero dell’Economia e della Banca d’Italia. Se ne dovrebbero occupare con discrezione, con mano leggera, ma anche con chiarezza di vedute strategiche, definendo un level playing field, un campo da gioco equo, per dare fiducia a chi dall’estero investe in modo rilevante in una banca italiana. Non si tratta di favorire questa o quella soluzione, ma di fornire precise garanzie sulle regole del gioco, spendendo la credibilità acquisita in questi mesi a livello internazionale anche presso i governi che stanno dietro i fondi sovrani. Il governatore Ignazio Visco dovrebbe poi garantire il rispetto di queste regole, chiudendo definitivamente un’epoca a Piazza Cordusio e aprendone una nuova. Non certo per spingere questo o quel manager come sta facendo goffamente, e del tutto impropriamente, la Vigilanza di Via Nazionale in qualche banca più piccola. I fatti, del resto, hanno ampiamente dimostrato che l’italianità del passaporto dei maggiorenti di una banca non garantisce un bel niente, se non l’estrazione di benefici privati del controllo ai predetti maggiorenti.
È interesse dell’Italia che investitori e professionalità estere trovino attraente venire nel nostro paese. È interesse dell’Italia che una grande multinazionale bancaria riacquisti stabilità patrimoniale e abbia azionisti con le spalle larghe pronte a sostenerne lo sviluppo. È interesse dell’Italia che questa multinazionale bancaria resti autonoma, senza farsi assorbire da qualche concorrente francese o tedesco, e mantenga la testa in Italia: e pazienza se poi i cervelli non sono nati in Padania. È interesse dell’Italia che a Milano ci sia almeno un grande gruppo potenzialmente aperto a chiunque abbia studiato e investito nella propria conoscenza, e sia disponibile a competere sul merito. È interesse di tutti che il credito sia dato con criteri rigorosi e non ai soci amici. È interesse, infine, di Unicredit e di chi ci lavora riemergere dalla crisi recuperando il genio dei tempi migliori, la novità che la banca ha rappresentato fino a metà dello scorso decennio, lasciando che il crollo borsistico dell’ultima settimana seppellisca definitivamente i non pochi errori – come la vendita cospicua di prodotti derivati alle imprese o le acquisizioni da Capitalia in avanti. E archivi un passato che non vuole passare.
Twitter: @lorenzodilena