Livorno rivive l’incubo Moby Prince, ma nessuno ne parla

Livorno rivive l’incubo Moby Prince, ma nessuno ne parla

Lo spettro della Moby Prince non si è ancora allontanato da Livorno ed ecco che la città toscana, e il suo porto, devono fare i conti con un altro mistero.

Il 17 dicembre nell’area del Banco di Santa Lucia, ad ovest dell’Isola di Gorgona, sono caduti in mare, dall’eurocargo “Venezia” della Grimaldi Lines, due carichi di bidoni contenenti sostanze tossiche ed altamente infiammabili al contatto con l’aria. Sono stati dispersi, con mare e vento forza nove, 198 fusti, in tutto 40 tonnellate di sostanze tossiche, nei fondali del Tirreno. Purtroppo è successo a circa 20 miglia dalla costa di Livorno, nel Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano e nel cuore del Santuario internazionale di mammiferi marini Pelagos.

Domenica scorsa duecento persone si sono riversate sul molo per una manifestazione di protesta, sorretta dalle istituzioni locali e dalle associazioni ambientaliste, Legambiente e Greenpeace in testa, per chiedere verità: quattro giorni dopo la perdita del carico a mare, la Capitaneria di porto ha diffuso bollettini e segnalazioni ai Comuni interessati: «…Chiunque avvistasse i fusti, sia pescherecci che cittadini a riva, ci avverta subito, non li tocchi se sono asciutti…» inoltre il comandante della guarda costiera livornese ha sottolineato che i fusti «…sono nocivi e se non vengono tenuti costantemente bagnati possono infiammarsi…».

Insomma: cosa c’era di preciso in quei bidoni? Perché nessuno ne parla? Perché sono mobilitati solo i media locali? Perché le autorità non prendono provvedimenti? Chi dovrà ritrovarli e portarli via?

Alla ripresa dei lavori parlamentari è stata presentata un’interrogazione al ministero dell’Ambiente a firma dei “senatori green” Roberto Della Seta e Francesco Ferrante: «Non è chiaro – scrivono – quale sia il livello di pericolosità del materiale finito in mare. Si tratterebbe di catalizzatori di ossidi di cobalto. Barrette piccole e granulose, di solito utilizzate per desolforizzare benzina e gasolio. Queste sostanze se fuoriescono dai bidoni, potrebbero galleggiare in sacchetti neri; a seguito di quanto, è accaduto nei confronti dell´armatore proprietario del Grimaldi è partita una diffida affinché si impegni a ritrovare e rimuovere dal mare i fusti».

I materiali dunque non sarebbero solvibili in acqua facilmente ma sono soggetti ad autocombustione se secchi.

Il 30 dicembre si è riunito in prefettura un tavolo tecnico convocato d’urgenza al quale hanno partecipato anche Arpat e Ispra da cui è emerso che i fusti non sarebbero «particolarmente tossici per la fauna marina». 

«Rassicurazioni vaghe», sono state definite dai senatori. I bidoni riportano la sigla Un 3191, cioè solidi inorganici autoriscaldanti tossici e materiali soggetti ad accensione spontanea.

Il tutto è accaduto in un’area protetta: il tratto di mare corrisponde a quello del Santuario dei Cetacei dove già nei mesi scorsi Greenpeace con un’indagine scientifica aveva individuato un forte inquinamento: oltre il 50 per cento dei campioni esaminati è risultato positivo ai test di laboratorio. Tra le sostanze rinvenute, pericolose per la salute dell’uomo e dell’ambiente: metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e composti organici volatili. La Procura di Livorno ha aperto un’inchiesta e ha indagato il comandante della nave per violazione delle norme che regolano il carico e il trasporto di rifiuti speciali. 

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