Avevano due nomi valorosi i due cacciatorpedinieri classe 1971 andati in disarmo sette anni fa. Ardito e Audace sono stati per oltre trent’anni i fiori all’occhiello della Marina Militare italiana. Anche chi non ha mai avuto niente a che fare con il mondo della nostra forza armata di mare, ne avrà sentito parlare. Quella forma affusolata e quei radar giganti davano ai due siluri bianchi una linea inconfondibile.
Ardito e Audace hanno concluso la loro vita a La Spezia, nel 2005. Per il loro disarmo sono state utilizzate squadre speciali, operai con tute bianche e mascherine, perché quelle due navi, orgoglio della nostra Difesa, erano zeppe di amianto. In barba alla legge italiana per la messa a bando dell’amianto, risalente a 13 anni prima, 1992. Che i due bolidi del mare girassero con il loro carico di fibra letale lo raccontano le carte stipate al porto di La Spezia: Ardito e Audace sono state bonificate in concomitanza del loro disarmo.
Il 2005 è una data epocale, da tenere presente per ricostruire fino in fondo il pericoloso intreccio che lega i vertici della Marina militare alla storia dell’amianto e delle migliaia di uomini che lo hanno respirato sepsso ignari, navigando e vivendo per mesi a bordo delle nostre navi. La settimana scorsa abbiamo raccontato del processo che si è appena concluso a Padova contro otto alti ufficiali della marina responsabili in capo mentre sulle navi l’amianto abbondava, si sgretolava sotto l’urto delle continue oscillazioni in mare, veniva respirato giorno e notte non soltanto dai macchinisti, ma anche da chi lavorava in coperta. Omicidio colposo per la morte di due marinai, è la richiesta dei pm. La sentenza è prevista per il 22 marzo. Con la notizia dell’avvio del processo, a Padova sono arrivate centinaia di cartelle cliniche: almeno 400, che raccolgono la storia di uomini che hanno navigato e hanno contemporaneamente respirato amianto, ammalandosi o addirittura – e putroppo nella maggior parte dei casi – morendo.
«Spesso durante la navigazione vedevamo nuvole bianche sprigionarsi dai manicotti, nella zona delle caldaie. Anche le piastre su cui si cucinava contenevano amianto e quando si sfaldava ed eravamo in navigazone allora le giravamo, per cucinare dall’altra parte. Ce lo racocnta Marco, capitano ormai quasi in pensione, malato di asbestosi come tanti altri suoi colleghi. Quelli ai quali è andata bene. Gli altri, molti altri, hanno dovuto vedersela con il mesotelioma pleurico e oggi non ci sono più. «Mio marito era orgoglioso di indossare quella divisa – ricorda Tina Leone, vedova di un ufficiale morto trent’anni fa per tumore ai polmoni – siamo in attesa della giustizia da tanto tempo, i miei figli erano bambini , oggi sono adulti, e sarebbe bello che potessero affrontare il futuro con l’esempio di uno Stato che si prenda cura di loro». Tina Leone è una delle tante vedove in attesa del risarcimento.
Ma il 2005 è un anno simbolo anche per questo. Da allora infatti, da quando è iniziata la fase istruttoria del processo padovano, c’è stata una lenta presa di coscienza dello Stato Maggiore ed è iniziato il pachidermico cammino verso i riconoscimenti.
Con l’inizio del processo di Padova sono arrivati i primi riconoscimenti economici, destinati alle due famiglie delle vittime: circa 700 mila euro a testa. Quindi sono stati predisposti i risarcimenti, resi possibili dal parere 1693 del 2010 della terza sezione del Consiglio di Stato. «Quella che vediamo oggi è una Marina Militare con un atteggiamento completamente nuovo rispetto al passato – sottolinea il capitano Alessio Anselmi, presidente del Cocer Marina, l’organo di rappresentanza dei militari di questa forza armata – siamo passati dal negare tutto e comunque ai risarcimenti. Anche i marinai ammalati o quelli deceduti vanno considerati come vittime del dovere, al pari degli alpini uccisi in Afghanistan, per intenderci, e sono stati attivati degli uffici ad hoc per esaminare le pratiche. Nel caso di vedove con problemi di mobilità, ad esempio, i responsabili di questi uffici inviano impiegati a domicilio per l’espletamento delle pratiche. Certo, sarebbe il caso di predisporre dei fondi anche per chi è stato soltanto esposto, per far beneficiare della riduzione di anni lavorativi ai fini pensionistici, ma ci arriveremo. Fino ad oggi – prosegue – sono stati risarciti 71 militari e due civili, che hanno lavorato in Marina, e per questi risarcimenti non vale nemmeno il limite temporale previsto della legge, che indica un’esposizione minima di dieci anni lavorativi e otto ore al giorno per poter godere dei benefici previdenziali».
Un paio di anni fa i fondi erano stati bloccati. Non c’erano più soldi, si diceva al ministero. Poi con un intervento legislativo sono stati stanziati altri cinque milioni di euro per il 2012. I marinai sono salvi, crisi permettendo.