Liberalizzazione. È una parola che abbiamo imparato a pronunciare, ma che ancora non abbiamo capito bene cosa voglia dire. A renderla patrimonio comune del dibattito pubblico, dal bar in su, fu Pierluigi Bersani nel 2006. Da ministro presentò una “lenzuolata” che mirava a smuovere la realtà immobile, in un paese in cui le protezioni vengono spesso tramandate di padre in figlio, e di apparato in apparato. Negozi, taxi, banche, tariffe, professioni. Ottimi i principi e le intenzioni, molto meno i risultati. Non si ha la sensazione di vivere in un paese tanto più “liberato” di prima: guidare un taxi non è più facile; aprire un negozio lo è forse un po’ di più, ma poco; fare concorrenza nel mondo delle professioni è complicatissimo; mentre le nostre bollette restano tra le più care del primo mondo.
Quella stagione di liberalizzazioni amputate, però, ebbe un merito: lasciò un germe, un tarlo, che torna a emergere ogni volta che la congiuntura economica e quella politica ci obbligano a guardare in faccia la realtà. Occasioni di lavoro ce ne sono poche, il potere di acquisto cala continuamente, e quindi potersi inventare uno spazio per guadagnare e uno per risparmiare diventa vitale. Alle questioni di sopravvivenza, risparmio ed efficienza economica dunque si saldano quelle di principio: l’iniziativa delle persone deve trovare quanti meno vincoli possibili sulla strada.
Ed eccoci qui, siamo all’oggi: il governo del professor Monti – tutta una vita spesa a studiare e applicare teorie sulla concorrenza – ha l’occasione di portare avanti ciò che nessuno ha mai davvero fatto. La costruzione di un paese più libero, proprio nel momento in cui questa libertà può essere anche una risorsa per uscire dalla crisi.
Detto fatto? No. Non solo perché le teorie degli economisti perdono sempre la loro linearità matematica quando diventano programma politico, ma anche perché – si sa – la miglior politica ha il compito ambizioso di mettere d’accordo ideali e interessi. Da una parte stanno gli interessi dei “protetti”, dall’altra quelli dei consumatori, che dalla perdita di protezione di altri hanno tutto da guadagnare. La questione è complicata per definizione.
La capacità degli interessi di difendersi e resistere è tanto più elevata quanto più sa essere efficiente, discreta e capace di non farsi notare nell’azione di lobbying. Tutto il contrario dei taxisti, per capirci. I quali hanno delle innegabili ragioni di categoria: per guidare le macchine bianche nelle nostre città hanno versato – solitamente alle casse pubbliche, sulla base di leggi pubbliche – diverse decine di migliaia di euro. Anche più di centomila. Per farlo, hanno dovuto spesso indebitarsi con le banche. Per guadagnare uno stipendio piccolo borghese (che di questi tempi è ormai un lusso), lavorano sei giorni su sette tutta la giornata. Sono, tra le categorie “protetta”, la più debole sia culturalmente che nelle categorie di rappresentanza: tanto è vero che le loro “ragioni” si fondano su un torto. Quello di aver accettato di indebitarsi per comprare dallo stato un diritto per un lavoro protetto sprovvisto di ogni valore aggiunto. Hanno investito rendita, o debito, per guadagnare una nuova rendita. E non appena si parla di rimuovere quella (piccola) rendita i taxisti fanno casino. Protestano. Spengono le auto. Minacciano di fermare la città e, dato il mezzo che guidano, la loro è una minaccia credibile. Si rendono antipatici ai giornalisti che li prendono e anche a chi non li conosce e li sa comunque privilegiati, rispetto a molti.
Insomma, una modalità di pressione inefficiente, quella dei taxisti, un po’ come del tutto inefficiente (per tutti, loro compresi) è il sistema “protetto” di cui sono attori protagonisti.
Come si fa un’azione di lobbying intelligente, invece? Si fa come la fanno i monopolisti delle reti, i giornalisti, i notai e tanti altri. Non ci si mette a strombazzare per le città, si evita di parlare esplicitamente sui media. Si lavora, invece, dentro un sistema di potere politico e amministrativo partendo da un grosso vantaggio data la sostanziale“parentela”.
Pensiamo ai giornalisti. Il governo Monti ha annunciato l’abolizione dell’albo dei pubblicisti, spazio di accesso a bassa soglia alla professione. Meglio, una modalità di riconoscimento abbastanza accessibile alla propria attività di scrittura o produzione giornalistica. Ma nulla si dice, invece, dell’albo dei professionisti che fa di noi una vera e propria casta, dotata di garanzie contrattuali ignote a tutti i lavoratori italiani e ai giornalisti della maggioranza dei paesi stranieri. Pensiamo ancora ai notai, che accedono al (remuneratissimo) diritto a vidimare le compravendite: e davvero nessuno riesce a spiegare perchè, e a tutela di cosa.
Pensiamo, infine, ai grandi monopoli di stato, dove a fare lobbying contro i consumatori, godendo di una grande capacità di spesa in pubblicità e pubbliche relazioni, sono grandi aziende quotate controllate dallo stato. Il caso di Eni e Snam Rete Gas è il più evidente. Uno scorporo della rete del gas dal perimetro di Eni ci porterebbe nel novero dei paesi evoluti, dove chi vende il gas in un regime di concorrenza non detiene il controllo della rete – l’unica – su cui devono per forza di cose passare tutti gli operatori. Eppure il sottosegretario Catricalà – come ha ben sottolineato Antonio Polito, sul Corriere della Sera di mercoledì – ha annunciato inflessibilità nei confronti di tutti, ma ha rassicurato Eni sul fatto che il tema non è proprio all’ordine del giorno. Intervistato oggi dal quotidiano di Via Solferino, il capo dell’autorithy dell’energia Guido Bortoni, non è peraltro andato oltre l’affermazione che, quella sullo scorporo, è una scelta eminentemente politica. E sempre per stare alle autorità garanti, ma davvero l’antitrust non ha nulla da dire sulla fusione tra Unipol e il gruppo Ligresti che, mentre salva una famiglia che ha fatto disastri e aiuta le grandi banche creditrici, finisce con il restringere ulteriormente la concorrenza in campo assicurativo?
Gli esempi sono tanti, ma possiamo fermarci qui. Quanto detto basta a capire che di possibilità ce ne sono molte, ma bisogna trovare la volontà e la forza politica. E i grandi temi della concorrenza che non sono all’ordine del giorno devono entrarci, e al più presto. Monti vada avanti, non si faccia fermare dai taxi: non tanto per tutelare il 2% di italiani che li prendono abitualmente, ma per garantire un risparmio al 100% di quelli che, ogni mese, pagano le bollette.