Nicolò Cavalli, 24 anni
Economista e ricercatore
Milano
Che cosa ha funzionato nel 2011?
Come quando nel 1842 Donizetti accettò la nomina di compositore di corte a Vienna, facendo infuriare Mazzini che avrebbe inteso renderlo simbolo del Risorgimento, anche nel 2011 si è tessuto il filo conduttore della storia italiana: il fatto di essere un Paese innervato da eccellenze individuali di caratura internazionale, che vengono dissipate a causa della nostra incapacità di tutelarle, valorizzarle, metterle a sistema senza irreggimentarle. Nell’anno che va finendo, mani italiane, per lo più giovani, hanno contribuito a firmare le più importanti scoperte scientifiche, dalla possibile rivoluzione dei neutrini al bosone di Higgs, dalla scoperta della stella senza metalli a quella delle nubi di gas primordiale. Questa è l’Italia che funziona, e fa male scoprire che quasi un quarto dei dottori in fisica, e circa il 10% dei dottorati in altre discipline, si trasferisce a fare ricerca all’estero. Ma il brain drain coinvolge in maniera significativa anche manager e professionisti: il problema primario rimane dunque la scarsa attrattività del nostro paese, non solamente per i giovani italiani, perché se è vero che nel 2065 gli stranieri in Italia saranno 14,1 milioni (oltre 3 volte la quota attuale), è altrettanto vero che l’immigrazione verso l’Italia è costituita da lavoratori a basse qualifiche, mentre le nuove immatricolazioni nelle università italiane da parte di stranieri conto solo per il 3% del totale, contro una media OCSE del 10% circa. Un tessuto socio-culturale così impoverito tende a inibire l’innovazione economica, che scaturisce dall’interazione discontinua e diffusa di individui con sistemi cognitivi differenti, in un processo in cui la qualità degli input forniti dall’ambiente sociale risulta di fondamentale importanza. Questo è sicuramente uno dei motivi per cui l’Italia è in stagnazione da oltre 20 anni, e per cui la difficile congiuntura economica si è abbattuta in questo 2011 con così tanta forza sul nostro Paese. Da un punto di vista più generale, il 2011, anche grazie ai movimenti che in maniera diversa hanno influenzato i regimi politici in Occidente, Nord-Africa e Medio-Oriente, ha portato a mettere in discussione questioni sulle cui intrinseche contraddizioni vigeva una congiura del silenzio fatta esplodere dal proseguire della crisi economica. Per citarne solo alcune: il fatto che la distribuzione dei redditi non è necessariamente la risultante ottimale dello svolgersi delle forze di mercato, anzi che la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi è uno dei fattori che in maniera più forte influenza l’andamento dei mercati verso determinate direzioni; il disvelamento dell’ideologizzazione dell’opposizione tra stato e mercato, due entità che, come mostrato a partire dal 2007, risultano spesso consustanziali e anzi si rafforzano reciprocamente nella difesa di determinati rapporti di potere; il fatto sempre più evidente che esistono aree (come l’assistenza medica, i beni pubblici quali acqua o aria, il cibo) in cui i meccanismi di mercato falliscono sistematicamente nell’utilizzare efficientemente e sostenibilmente le risorse disponibili. L’ultima crisi economica di dimensioni paragonabili a quella attuale ci ha dato Keynes: si sente anche oggi la necessità di liberarsi dalla schiavitù degli “economisti defunti”, molti dei quali ancora in vita. Il 2011 ci lascia con questa consapevolezza e con lo spazio, anche in Italia, per pensare di poter e dover tentare di costruire qualcosa di nuovo. Non è poco.
Cosa deve cambiare nel 2012?
Muoversi nella categoria prescrittiva del dover-essere è sempre piuttosto semplice, eppure sono tante le cose che, anche al netto della congiuntura, dovrebbero cambiare nel prossimo anno. Innanzitutto bisognerebbe mettere mano al sistema universitario, tuttora caratterizzato da elevati tassi di abbandono: erano al 21,3% nel 1998, sono al 19,2% nel 2009. Il 3+2 ha garantito una democratizzazione nell’accesso universitario ma non una contemporanea democratizzazione in uscita: il background famigliare continua a pesare sulla possibilità di riuscita negli studi. Infatti, avere un genitore con licenza elementare rispetto a un genitore con laurea aumenta del 7-10% la probabilità di abbandonare l’università nei primi tre anni. Questa situazione blocca di fatto il paese, cristallizzandone le posizioni sociali ed economiche: confrontando lo stato sociale della famiglia d’origine con quello attuale, una ricerca SWG nel 2008 ha mostrato come per oltre il 41% dei nati prima del 1950 avesse ottenuto uno status migliore rispetto ai propri genitori, contro il 21% per i nati negli anni ’70 e il 6% per i nati nella seconda metà degli anni ‘80. L’elasticità intergenerazionale dei redditi (cioè la relazione tra il reddito del padre e dei figli) risulta essere in Italia tra le più alte nei paesi OCSE, il che indica un paese in cui la mobilità sociale intergenerazionale è praticamente assente. E’ così che solo il 29,7% dei laureati dichiara che la laurea ha portato un miglioramento della propria condizione lavorativa, mentre il 21% definisce la laurea “non richiesta né utile” per il proprio lavoro. In una situazione così depressa e bloccata, quasi non ci si stupisce di come la disoccupazione giovanile in Italia abbia recentemente raggiunto le soglie del 30%, mentre si fa impressionante il fenomeno dei NEET, che riguarda oggi circa 2 milioni di giovani – oltre il 21% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. Allo stesso tempo, aumenta l’esposizione dei giovani al lavoro atipico e al lavoro nero così che, mediamente, si ottiene un lavoro fisso non prima dei 38 anni. Per chi ha un lavoro, anche se qualificato, le retribuzioni rimangono basse: a un anno dalla laurea, si aggiravano nel 2007 attorno ai 1150 euro per i laureati triennali e attorno ai 1100 per i laureati specialistici, e si contraggono nel 2008 di una forbice compresa tra il 4 e il 5%, secondo un trend decrescente proseguito anche negli anni successivi. Di conseguenza, 4 milioni e mezzo di ragazze e ragazzi tra i 26 e i 35 anni (circa il 48% della popolazione giovanile) vivono con i propri genitori, e la metà dei giovani italiani lascia il tetto casalingo all’età di 27,1 anni per le donne e 29,7 anni per gli uomini Nel 2012, dunque, dovrebbe cessare il furto di futuro che avviene ogni anno a discapito dei giovani italiani e occorrerebbe introdurre una serie di riforme “strutturali” in grado di rendere dinamico il sistema economico italiano. Se ciò non è stato fatto sino a oggi, è anche a causa della scarsa rappresentatività del Parlamento, in cui il 20% della popolazione italiana (la fascia dei giovani) elegge 13 deputati su 630, perlopiù cooptati per ragioni di marketing elettorale. Occorre infine considerare che ai dati riportati sottostà un enorme differenziale geografico (tra nord e sud Italia) e di genere (tra donne e uomini). Un’altra sperequazione che dovrebbe finalmente cessare.
Una proposta concreta per il futuro?
Nel periodo 2008-2018, solo il 12,5% delle assunzioni previste in Italia riguarda persone con titolo di laurea, contro il 31% degli Stati Uniti. Risulta dunque evidente che il matching tra domanda e offerta di laureati è distorto o comunque sproporzionato sul lato dell’offerta, il che è paradossale e richiede in ultima analisi di sollevare una questione che concerne il modello produttivo auspicato per il nostro Paese. L’Italia delle svalutazioni competitive è finita con l’introduzione dell’euro, molte imprese hanno faticato o evitato di riposizionarsi nelle supply chain globali e la crisi sta oggi sancendo la loro definitiva perdita di competitività internazionale sotto forma di sensibili riduzioni negli ordini industriali. Tentare di ritornare competitivi attraverso una svalutazione reale dei salari e una rimodulazione al ribasso delle aspettative dei lavoratori rispetto alla propria carriera è una strada con enormi costi sociali, senza contare che porrebbe l’Italia a diretto confronto con competitors difficilmente eguagliabili. Nell’epoca che David Harvey ha definito della “compressione spazio-temporale” i cambiamenti che investono le strutture produttive sono molto rapidi: si tratta di una condizione sostanzialmente nuova, con cui occorre fare i conti e rispetto alla quale risulta sempre più necessario costruire categorie di comprensione e possibilità di azione. Rispetto a tali complessità, la XIII indagine sulla condizione occupazionale dei laureati, curata dal prof. Cammelli, afferma che “vi sono diversi motivi per favorire una formazione che non punti a una specializzazione troppo anticipata dei giovani e a modelli formativi troppo professionalizzanti: a) La flessibilità “strutturale” del capitale umano: i dati mostrano che il ciclo di vita delle tecnologie e delle industrie si è ridotto sensibilmente negli ultimi 20 anni a causa della globalizzazione e della diffusione delle ICT. Si tratta di un trend che continuerà nel futuro e che comporterà la necessità di riposizionare continuamente lavoratori e capitale umano tra settori e territori diversi. b) La flessibilità “congiunturale” del capitale umano: l’accresciuta instabilità dell’economia mondiale, da mettere in collegamento alla deregolamentazione dei mercati e alla globalizzazione, richiede ai lavoratori maggiori capacità di adattamento alle più frequenti fluttuazioni economiche, quindi più elevati livelli medi di istruzione della forza lavoro. c) La complementarità tra istruzione e formazione: la produttività degli investimenti in formazione sul lavoro dipende in maniera sostanziale dal livello di istruzione dei lavoratori. Riqualificare attraverso la formazione lavoratori poco istruiti e, soprattutto, con una formazione molto specialistica è poco efficace e molto costoso per la collettività”. Sembrerebbe dunque desiderabile riuscire a equilibrare momenti di formazione generale, volti a una sostanziale accumulazione di capitale umano che permetta ai laureati di padroneggiare i cambiamenti delle strutture economiche senza perdere appetibilità sul mercato dei fattori produttivi, e un progressivo inserimento nel mondo lavorativo, in modo che gli studenti abbiano da subito esperienza diretta del mondo del lavoro e possano acquisire competenze e know-how spendibili in ambito occupazionale. Nel contesto dell’economia globale contemporanea, queste due strade non sono in opposizione ma rappresentano, piuttosto, una necessaria complementarità. Come proposto dai prof. Boeri e Garibaldi, il modello delle Fachhochschule tedesche appare quello maggiormente flessibile e adatto a questa esigenza: “Ciascuna università, insieme a un numero di imprese localizzate sul territorio, dovrebbe istituire un corso di laurea triennale di specializzazione tecnica. Lo studente lavoratore acquisirà metà dei crediti del corso in azienda e metà dei crediti in università. Sia le imprese che le università metteranno a disposizione un tutor che seguirà il ragazzo in università e in azienda. Il ragazzo o la ragazza saranno formalmente impiegati presso l’impresa con un contratto di apprendistato della durata di tre anni, ma l’azienda non avrà alcun obbligo di assumere il giovane con un contratto unico di inserimento alla fine del triennio”. Una riforma a costo zero che muterebbe notevolmente le prospettive di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro.