Pochi giorni fa, Linkiesta ha inaugurato una riflessione sulla scomparsa delle grandi teorizzazioni e dei grandi pensatori, auspicando la ricerca di nuove elaborazioni intellettuali, «di modelli economici sostenibili, di forme di democrazia auspicabili, di quelle benedette idee di cui ora abbiamo così tanta fame». È per questa ragione che abbiamo deciso di aprire una serie di interviste, iniziando da Carlo DʼIppoliti. 30 anni, ricercatore e insegnante di Economia Politica presso lʼUniversità La Sapienza, caporedattore di PSL Quarterly Review e di Moneta e Credito, DʼIppoliti ha recentemente pubblicato con Routledge un libro dal tiolo Economics and diversity. I suoi interessi di ricerca sono la storia del pensiero economico e le politiche economiche e sociali invocate da scuole di economia non mainstream, quali ad esempio le teorie economiche femministe, post-keynesiane e sraffiane.
Nel suo articolo, Linkiesta ipotizza che «il pensiero non riesce più a prodursi come tale perché è sparito il suo sottostante. Lʼoggetto è andato frantumandosi (nel caso delle specializzazioni), separandosi (nel caso della frattura fra fisiologia e anatomia geografica), nascondendosi (nel caso dello slum di Mumbai)».
Tu che ti sei occupato di storia del pensiero in campo economico, cosa ne pensi?
Ognuna delle tre ragioni individuate nell’ articolo certamente influisce sulla scomparsa delle grandi idee che sembra caratterizzare il dibattito contemporaneo, ma a queste io ne aggiungerei altre.
Quali?
Innanzitutto, chiamerei in causa un processo iniziato molto tempo fa e giunto oramai alla sua completa maturazione, ossia la professionalizzazione del ruolo intellettuale. È una dinamica dapprima analizzata da Max Weber ma anche, più recentemente, da Richard Florida, che parla della nascita di una vera e propria “classe creativa”. Come un esercito di formichine, gli intellettuali “di mestiere” hanno forti incentivi a evitare le grandi teorizzazioni e a realizzare piccoli progressi nel “sapere” allʼinterno di un paradigma dato, che non mettono mai in discussione. Allo stesso modo, hanno forti incentivi a fare ricerca applicata e zero ricerca di base. A questo prosciugamento della fonte della cultura contribuiscono anche le politiche pubbliche, che valutano i ricercatori e le istituzioni con metodi che favoriscono la conservazione dellʼesistente. Altri fattori ancora si potrebbero trovare, ma lasciami dire due cose in maniera esplicita. Primo, nemo profeta in patria. Molti dei nomi che cita Linkiesta nel suo articolo non erano considerati grandi e credibili intellettuali al loro tempo, quindi da un certo punto di vista aspettiamo e vediamo. Secondo, il dibattito intellettuale è sempre stato un privilegio dʼélite: come un secolo fa pochissimi erano coloro che sapevano leggere, e ancor meno coloro che sapevano scrivere, oggi non si può cercare il dibattito intellettuale sui mezzi di comunicazione di massa: né su la Repubblica, né sul Financial Times, tanto per intenderci.
Da quello che dici, sembra che il dibattito intellettuale ci sia, insomma. Il punto è trovarlo. Dovʼè?
Qui posso limitarmi alla mia disciplina e dico che sì, gli intellettuali ci sono e si trovano prevalentemente nelle università, nellʼaccademia. Contrariamente a quanto traspare allʼesterno, lʼeconomia è una scienza “viva”, con diverse scuole che si confrontano sulla base di ipotesi e previsioni anche drasticamente opposte: proprio come le altre scienze. Purtroppo, per diverse ragioni, sui media di massa vige unʼidea della scienza economica di stampo positivista, come se esistesse unʼunica “Verità”, e il compito dellʼeconomista fosse quello di scoprirla. Diversi fattori concorrono a questa distorsione: il recente film-documentario Inside job concentra lʼattenzione sui conflitti dʼinteresse per gli economisti. Ora, è innegabile che lʼeconomia mainstream debba parte (non so quanta) del suo successo alla sua capacità di coagulare attorno a un sistema teorico matematicamente formalizzato tutta una serie di interessi economici. Io però non ritengo sia immorale che un economista riceva soldi per fare determinate ricerche (a meno che egli o ella non cambi idea a causa del finanziamento ricevuto). Ciò che ritengo scientificamente immorale è che questi economisti neghino il dibattito, marginalizzando sistematicamente le voci fuori dal coro e, soprattutto, ignorando – anziché rispondervi – le critiche distruttive cui le loro teorie vengono da tempo soggette. Insomma, il dibattito intellettuale cʼè, ma somiglia più che altro a un dialogo tra sordi…
Ma quali sono le principali critiche mosse allʼeconomia neoclassica?
Dunque, oggi il termine “neoclassico” sta nuovamente cambiando di significato. Rimaniamo sul generico: la scuola maggioritaria degli economisti sostiene che il mercato sia unʼistituzione efficiente. Così non vi sarebbe disoccupazione se non ci fossero “shock” esterni allʼeconomia, come quelli prodotti da uno Stato che non si fa gli affari suoi. Un evento improvviso e dirompente come la crisi non può esser spiegato da questa scuola di economisti, insomma, se non tramite perturbazioni esterne al mercato, che ne hanno temporaneamente impedito il buon funzionamento (la cattiveria dei banchieri, falle nella regolazione delle banche, le politiche economiche sbagliate, eccetera). Al contrario, molti economisti non ortodossi riconoscono pacificamente che le crisi sono momenti del tutto fisiologici nel funzionamento del capitalismo. Qui, possiamo avere varie interpretazioni dei motivi che conducono alle crisi: gli economisti di ispirazione marxista tenderanno a vedere crisi di sovrapproduzione (a loro volta dovute alla concentrazione della ricchezza e alla crescita delle diseguaglianze), i post-keynesiani tenderanno a sottolineare gli eccessivi squilibri che si vanno accumulando, in particolare per quanto riguarda il debito privato (mentre tutti sembrano tanto angosciati dal debito pubblico…), coloro che si ispirano in particolare a Minsky tenderanno a sottolineare il ruolo della finanziarizzazione, e in particolare della fragilità e dellʼinstabilità dovute alle innovazioni in campo finanziario. La lista potrebbe continuare.
Il capitalismo, quindi, non è in crisi?
Il capitalismo non è in crisi, il capitalismo è in una crisi, come spesso gli accade. Questʼultima può essere superata (non è facile, ma si può) tramite un maggiore intervento pubblico, sia in termini keynesiani, di sostegno alla domanda, sia di migliore regolazione e supervisione del mercato.
Devo interromperti: ma se non ci sono i soldi, come puoi attuare politiche keynesiane di stimolo?
Anzitutto, se le misure di austerità riducono il reddito nazionale (come ormai concordano tutte le previsioni per il 2012 per lʼItalia e non solo) allora lʼausterità potrebbe richiedere anche più soldi, perché riducendo il PIL riduci le entrate fiscali per lo Stato, e perché il debito si misura in percentuale del PIL (quindi se il PIL, che sta al denominatore, si riduce, il debito ne diventa una percentuale più alta). Ecco perché facciamo manovre per inseguire gli obiettivi posti dalle precedenti manovre che inseguivano quelle ancora prima. In secondo luogo, le politiche di sostegno alla domanda possono venire anche dallʼEuropa (sia in termini di politica monetaria che di investimenti pubblici), quindi senza bisogno di aumentare il debito italiano. Recentemente ho scritto su questo un articolo, cui ti rimando. Lasciami invece tornare al punto generale: il fatto che le crisi siano un fenomeno ricorrente non vuol dire che dobbiamo solo aspettare di uscirne, per tornare al “business as usual”. Non ha senso il concetto di “ripresa” dellʼeconomia, o di “fine del ciclo”, se non in unʼottica mainstream, per cui il mercato produrrebbe lunghi periodi di stabilità e crescita, moderata ma ininterrotta. In unʼottica più realista, dobbiamo riconoscere che non esistono percorsi scontati nel destino economico futuro. Se e quando usciremo dalla crisi attuale dipende da come decideremo di uscirne. In particolare in Europa, trovo la semplice attesa che lʼeconomia si ristabilisca da sé una strategia molto pericolosa: potremmo doverci preparare a molti anni di stagnazione “giapponese” (come in Italia già accadeva prima della crisi, per la verità). Ma questo non vuol dire che altrove il capitalismo non sia invece vivo e scoppiettante. Né voglio negare che, a prescindere dalla crisi attuale, il capitalismo generi situazioni strutturali di “crisi sociale”, come la disoccupazione, la povertà, il danneggiamento dellʼambiente o la crescita delle disuguaglianze.
Ma se il capitalismo non è, al contrario di quanto è spesso sostenuto anche da autorevoli commentatori, il migliore dei mondi possibili, esiste allora un problema di calcolo dei suoi costi e dei suoi benefici?
Di certo il capitalismo ha prodotto enormi benefici, come la scolarizzazione e la sanità. Possiamo riconoscere questi sviluppi positivi a patto di riconoscere alcune confusioni terminologiche, che occorre chiarire. Intanto non esiste il concetto di sottosviluppo: il capitalismo è lʼEuropa occidentale e gli USA, ma è anche il Sud America e lʼAfrica. Anche la Cina è capitalismo, è anzi “capitalismo” quanto quello americano, pur manifestandosi in forme apparentemente differenti (a questo proposito, gli economisti istituzionalisti e quelli evoluzionisti parlano di “varietà dei capitalismi”). Il capitalismo è il sistema economico basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sullʼassenza di un piano dettagliato e centralizzato (sebbene possano esservi elementi di pianificazione, e anche da noi non farebbero affatto male). In questo sistema, il mercato è unʼistituzione sociale, creata dalle leggi che ci diamo, e non una specie di stato primordiale di natura, su cui solo successivamente si inserirebbe lo Stato. Inoltre, il mercato non è lʼunica istituzionale sociale che ha un ruolo economico, allʼinterno del capitalismo ci sono anche lo Stato stesso e la famiglia (proprio il mio libro che hai gentilmente ricordato riguarda il ruolo economico della famiglia nella sua interazione con lo Stato e il mercato, e come questo determini i ruoli di genere). Ecco, questo sistema complesso ha tanti costi, ma ha portato anche tanti benefici, e compito degli economisti dovrebbe essere quello di ridurre i primi e aumentare i secondi.
In questo sembra necessario il contributo della politica. Esistono gruppi pronti a prendere in mano questa bandiera?
Di sicuro cʼè un problema nella sinistra europea. Mentre, da un punto di vista economico, questa si spostava a destra, inseguendo le sirene neo-liberiste (quelle cioè che propugnano le versioni estreme del liberismo), a livello sociale con la crisi si è creata unʼesigenza di maggiore tutela sociale, di più socialdemocrazia. Oggi trovo difficile che alcuni esponenti di primo piano, che in diversi paesi si sono molto esposti sul fronte neo-liberale, possano credibilmente fare “inversione a U”. Serve allora un ricambio nelle idee ma anche nelle persone (e su questo lasciami dire che la mia esperienza quotidiana, allʼuniversità, è che i “giovani” sono ben più conservatori dei loro genitori). Esiste però anche un problema di riflessione intellettuale, in quanto le forze politiche che stanno effettivamente tentando di fornire unʼinterpretazione alternativa del capitalismo di oggi sembrano irrimediabilmente avvinte in un sincretismo superficiale, secondo cui qualsiasi teoria economica va bene, purché critichi la posizione neo-liberale. Lo stesso slogan del movimento degli indignati, “siamo il 99%”, è un esempio di questo sincretismo (non a caso lo slogan è stato coniato da Stiglitz, economista politicamente di sinistra ma da un punto di vista teorico pur sempre appartenente alla scuola mainstream). Non “siamo” affatto il 99%: ci sono i lavoratori dipendenti, gli autonomi, i pensionati, le casalinghe, i precari… Tanti soggetti portatori di interessi anche contrastanti, interessi che non spariscono solo perché fingiamo di non vederli. Insomma, sia dal lato della domanda (politica) che dellʼofferta (culturale) cʼè il problema di sciogliere il matrimonio di interesse che negli anni ʼ90 si è venuto a creare tra le forze della sinistra e il mainstream dellʼeconomia.
E a che scopo?
Nellʼimmediato, la crisi mostra molti nodi irrisolti nel capitalismo attuale. Nel breve periodo uscire dalla crisi passa per una diversa politica macroeconomica, sia fiscale che monetaria, e forse valutaria. In Europa, abbiamo il problema di aver creato una moneta unica, un mercato unico, e non una democrazia unica che complementi questa nuova realtà. È chiaro a tutti ormai che il mercato non si crea e non si regolamenta da solo, quindi più integrazione politica in Europa non è unʼutopia o una prospettiva politica, ma una necessità per garantire sostenibilità ed efficienza dellʼattuale costruzione, ancora incompleta.
Nel medio-lungo periodo, non so rispondere in poche righe alla domanda di fondo posta da Linkiesta, non sono un intellettuale così fine. Mi limito quindi a sottolineare le precondizioni per un riorientamento del capitalismo attuale, la prima delle quali mi sembra la redistribuzione del potere, in senso economico e non solo. Questa richiede come minimo una incisiva regolazione della finanza (che tra lʼaltro serve anche per arginare la crisi), maggiore concorrenza (che non è la stessa cosa del mercato) e una compiuta democrazia, anzitutto europea, poi in prospettiva mondiale. Prova solo a contare quanti governi sono cambiati per via della crisi finanziaria, e non per genuine dinamiche politiche (Islanda, Irlanda, Portogallo, Grecia, Italia, Estonia, forse anche il Regno Unito e la Spagna), e concorderai che abbiamo un problema non solo di sostenibilità ma anche di legittimazione politica dellʼassetto attuale.
Esistono oggi alternative al sistema capitalistico?
Il capitalismo non è sempre esistito e non è detto che esisterà per sempre. Il punto è: esistono oggi percorsi di uscita dal capitalismo? Io nellʼimmediato non ne vedo. Per uscire dal capitalismo, infatti, serve una convergenza degli interessi di chi, collettivamente, ha il potere di cambiare le cose. Messa così è un poʼ astratta: facciamo un esempio. Nella mia personale ricerca, in questo periodo sto riflettendo su unʼosservazione di John Stuart Mill sulle cooperative. Verso la fine del 1800, Mill le vedeva come lʼinevitabile forma organizzativa futura della maggior parte delle imprese, perché si aspettava che cittadini sempre più istruiti si sarebbero crescentemente rifiutati di lavorare per il profitto di qualcun altro, e avrebbero iniziato a organizzarsi da sé. Questo però non è successo. Qual è il motivo? Di certo ci sono assetti istituzionali che rendono molto difficile muoversi in questa direzione, ma identificare quali assetti e perché e come hanno agito in questo senso è un tema complesso e, per me, interessante. Se non vedo uscite “anticipate” dal capitalismo, comunque, credo che esista uno spazio, che si è allargato con la crisi attuale, per riorientare il capitalismo verso più equità e più etica. Resta da vedere se saremo in grado di riempirlo: la politica dovrebbe guardare un poʼ di più agli economisti non mainstream, e noi… farci vedere di più.