Se ne sono andati

Se ne sono andati

Christopher Hitchens

(13 aprile 1949 – 15 dicembre 2011)

Di Portsmouth, Inghilterra, ma passato negli Stati Uniti dal 1981, diventando poi cittadino americano, e vivendo stabilmente a Washington. Dalle postazioni base dell’universo inglese, e dalle loro televisioni, radio, e giornali (The New Statesman, The Nation, Vanity Fair) ha parlato e scritto contro gruppi e singoli, da lui scelti come sostanziali nemici dell’umanità, o come dei santificati, o santificate, senza merito. Tutti casi diversi, ma tutti del suo secolo. A suo modo, ha disossato senza «via di scampo dall’ansia e dalla lotta» i talebani e «l’islamofascismo», Madre Teresa di Calcutta, Henry Kissinger, il Mahatma Gandhi, Joseph Ratzinger, Ronald Reagan, e molti altri primi piani del mondo. Aggredito, negli ultimi anni, da un cancro all’esofago, è morto in un ospedale di Houston, Texas. Aveva 62 anni.

Ai malati di cancro si chiede, un po’ inutilmente, «come stai?». Quando è successo a Hitchens, ha risposto : «Come sto? Sto morendo». Quando stava molto bene, ha scritto a favore “della vita su questa terra”: «Inciampiamo e ci rialziamo, siamo tristi, fiduciosi, insicuri, ci sentiamo soli e felici e innamorati. Non c’è niente di più, ma io non voglio niente di più». Voleva anche non rinunciare – e non lo ha fatto neanche con una pausa – a tutto quello che può rendere fiduciosi, tristi, o felici: molte sigarette, molte bottiglie, un bel po’di passioni, d’amore, o di sesso.

Nel suo mestiere e nel suo successo – un livello massimo nel giornalismo, nel pamphlet, e nel saggio in presa diretta – ha avuto più coraggio, più ironia, e più cultura anche della media alta a cui sono abituati gli inglesi e gli americani: lettori, scrittori di giornali, commentatori televisivi. Londra, negli anni di Christopher giovane e già accanito nei primi lavori, non era solo swinging ma anche left wing, e fornita di molte “sinistre”: lui era trozkista (ma poi avrebbe lasciato perdere) e scriveva sul New Statesman, il giornale, ben fatto, dei laburisti più coltivati, più teorici, e meno socialdemocratici.

Una formazione libertaria, molto inglese (o molto alla Orwell) che serviva a tenere costantemente la testa vigile. Sui principi base (l’antifascismo in senso lato e aggiornabile, e i diritti degli uomini e delle donne) e su come schiaffarli in faccia al mondo quando era necessario. Praticamente ogni giorno, oltre a tutto facendo il pubblico commentatore ed essendo un dissidente spontaneo. Hitchens non ha mai cercato il riposino nel termine “disaccordo”. Ha costantemente attaccato i suoi bersagli, per difendere le loro vittime. E senza difendersi, ma con i suoi argomenti. Basta pescare nel catalogo dei suoi ritratti, nei loro frangenti più tipici.

Ecco i talebani, e gli “islamofascisti”: «Non voglio respirare la stessa aria di questi psicopatici e assassini e stupratori e molestatori di bambini. Sconfiggerli è un dovere e una responsabilità. Ma è anche un piacere». Salman Rushdie ha rimpianto il suo amico Hitchens come «un grande cuore che si è spento»: la fatwah di Teheran contro lo scrittore indiano, nel 1989, aveva fatto esplodere lo scandalo personale, in nome dell’umanità, di Christopher.

Ecco Madre Teresa che «non era amica dei poveri, ma della povertà». E che aveva accettato «i soldi del dittatore di Haiti Duvalier», e che, da albanese, si era fatta ricevere in Albania nel pieno delle dittatura. Di una dittatura totalmente atea. Ecco l’istantanea su Ronald Reagan: «Stupido come una zucca. Non aveva amici, solo compari». O su Henry Kissinger: «Un fenomenale bugiardo con una memoria notevole». O sull’arroganza di Gandhi che, nel 1939, scriveva al «caro amico Adolf Hitler», cercando di convincerlo alla non violenza e quindi a non fare la guerra. O su Benedetto XVI: «Un uomo ordinario, un mediocre burocrate bavarese incaricato di mettere a tacere i crimini più gravi». Quali? «I milioni di persone che moriranno inutilmente di Aids, i pretesti e la protezione a chi si è macchiato di un peccato imperdonabile come stuprare bambini, o le tante persone a cui il senso di colpa e la vergogna hanno rovinato la vita sessuale, e a cui è stato insegnato a rispettare il corpo solo quando è una spoglia senza vita come quello di Terri Schiavo».

Christopher Hitchens è stato un ateo assoluto, uno degli ultimi, un genere relativamente introvabile, oggi. Uno contro Dio, «la religione, e lo spirito religioso». Chiedeva «prove straordinarie o solo ordinarie per le rivendicazioni sovrannaturali».
 

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Ma, in questo faccia a faccia impossibile, gli sono sfuggite poche cose importanti. Ha chiamato “Dio non è grande”, uno dei suoi ultimi saggi. Un credente potrebbe obiettargli che, infatti, Dio è infinito. Gli è mancata l’ironia di Eugenio Montale: «I dialoghi tra gli atei e i credenti / si sono svolti, dicono, / senza incidenti. Solo un po’ stanchi i glutei / per le lunghe sedute / e conversioni reciproche, / imprevedute, / restando eguali, com’era prevedibile / le percentuali (da considerare che questa poesia si chiama “Leggendo il giornale”)».

Alla fine non ce l’ha fatta a capire, o a sottoscrivere, uno dei più antichi diritti dell’uomo. Tracciato, in poche righe, dal pittore Balthus: «Pregare è un modo di uscire da noi stessi. Non sono Dio, ma sono probabilmente una Sua parte e quando prego provo a raggiungere la luce, a elevarmi. Quando dipingo, è come una preghiera».

Robert Easton Burke

(23 novembre 1930 – 16 dicembre 2011)

L’ «uomo dalle mille voci» che, per 60 anni, a Hollywood, si è fatto ascoltare e ha insegnato a farsi sentire in un inglese appropriato. Era di Milwaukee, Wisconsin, ma è morto a casa sua, a Los Angeles, a 81 anni. Stava trasformando John Travolta in un bosniaco che parla angloamericano.

Fra le tante, inevitabili, intenzioni di Capodanno, può starci bene quella di perfezionare una lingua non materna, né paterna. Non si parla di imparare ex novo, ma almeno di rendersi più credibili in una cadenza. L’inglese è d’obbligo, l’inglese internazionale (quello più riconoscibile, e a volte tremendo, di chi non nasce anglofono) ha spazi planetari, ma l’inglese del cinema (spesso poco decifrabile) ha un retroterra pieno di racconti. La vita e l’opera del signor Easton – un biondino ondulato e allegro nelle foto giovanili – vale qualche riga di memoria.

A suo modo è stato un uomo senza qualità, cioè capace di parlare in mille modi, tanto da rendere complicato riconoscere, anche a se stesso, il carattere della sua voce. A quel dono – non da imitatore, ma da creatore di veri transfert psicologici – si è aggiunta la qualità fondamentale (non solo nel cinema) della fonetica precisa, della dizione degna di essere recitata. A Hollywood, Robert Easton è stato lo specialista di questa disciplina faticosa. Soprattutto per gli attori e le attrici che si portavano dentro i loro slang dei quattro angoli d’America, e che sul set si ritrovavano a dover essere qualcos’altro, come degli ET piombati lì dai molti angoli di un mondo non anglofono.

Il tutto parlando inglese, o con un’accento perfetto, o come uno straniero che usava quella lingua, mantenendo però la riconoscibilità della sua origine. Robert Easton ha stratificato una collana di successi, di passaggi di personalità sorprendenti: ha rifatto l’accento a Meryl Streep, ha trapiantato il ruolo e la voce di Patty Hearst in Natasha Richardson, ha fatto parlare il bel Gregory Peck come l’orrendo e nazista dottor Josef Mengele, ha trasformato la voce di Al Pacino in quella di un Al Capone cubano.

Ha toccato il massimo almeno due volte. Quando Forest Whitaker, telefonandogli, parlava come Idi Amin Dada senza farsi riconoscere. O quando la giovanissima giapponese Yoko Shimada, riusciva a fare la sua parte nel celebre polpettone Shogun (1980) recitando totalmente in inglese senza saperne una parola. Ma dopo che Easton le aveva incastrato i suoni ed, evidentemente, i significati. È stato amato come un pezzo unico, cioè un grande coach: anche per la sua pazienza nell’educare voci provinciali, nasali, palatali, o capricciose, di primiuomini e primedonne spesso tetragoni all’apprendimento.

È stato anche fortunato, a trovare e sposare una donna inglese, nel 1961: lei, June Grimstead, ascoltandolo, si sarà anche appassionata a quella sua cadenza texana (era cresciuto a San Antonio, con la madre), avendo però colto subito la necessità di un risciacquo nella Old Country. Il passaggio centrale e della carriera, di Robert avveniva di conseguenza: due anni a imparare il miglior inglese all’University College di Londra. E il resto della vita ad istillarlo in una schiera di star. Che, nelle loro memorie, probabilmente lo ringrazieranno.