Perché un oggetto che ci è appartenuto ci sopravviva, procurando emozione in chi verrà dopo di noi, sarà necessario aver lasciato qualcosa di incancellabile in vita. Altrimenti, chi mai dovrebbe interessarsi alla nostra sterminata collezione di scimmiette, che gli eredi non vedranno l’ora di depositare nella prima discarica utile? L’impresa è onestamente di pochi, generalmente di scrittori straordinari o di insuperabili rocker ritrovati esanimi in una squallida vasca di qualche albergo dimenticato.
È per questo che ho letto con un certo interesse una paginetta sfiziosa su Repubblica che raccontava «l’ultima mania dei collezionisti che non riguarda manoscritti o inediti, piuttosto gli oggetti di uso quotidiano degli scrittori». In realtà non si tratta di una mania di quest’ultimo tempo, si è sempre sentito che nelle aste in giro per il mondo si comprassero orpelli di un’inutilità assoluta, ma riconducibili al Tizio o al Caio scrittori di cose memorabili, e sol per questo meritevoli dell’attenzione di qualche feticista.
Ciò che naturalmente andrà contemplato, nell’assumere la decisione di concorrere per uno stuzzicadenti in oro e avorio appartenuto a Charles Dickens, è l’assoluta mancanza di logica, che porterà, come ha portato da Bonhams a New York, il prezzo battuto in asta sino alla vertiginosa cifra di novemila dollari. Uno degli elementi molto dibattuti, all’interno di questi simpaticissimi fuori di testa, è se a quello stecchino verrà data la nuova opportunità di infilarsi nella bocca del compratore, o piuttosto, rimanere gelosamente protetto in una teca di cristallo. Temo questa seconda ipotesi.
Si diceva che non v’è logica alcuna. Soprattutto perché non è un mercato riconducibile a una qualche serialità, come in parte può essere quello dell’arte, e neppure fa riferimento a precedenti battute. Si va di pazzia in pazzia, di feticista in feticista, ben al di là dell’oggetto in questione che diventa soltanto un pretesto per fagocitare materiale su materiale. Così almeno pensa Wanda Rotelli di Sotheby’s: «E’ il settore che gli inglesi chiamano collectibles, oggetti da collezione più legati a un’ansia da accumulazione che a un reale interesse per il valore artistico».
Giusto per farvi qualche esempio concreto, non so quanti di voi si sarebbero battuti come leoni pur di strappare all’agguerrita concorrenza il collare in pelle e ottone del cane (sempre) di Dickens, che un gentiluomo di provincia si è portato via per la miseria di undicimila dollari (Bonhams, New York). Meno sentiti i miti della Beat Generation, che evidentemente hanno intristito i contendenti, al punto di non battagliare eccessivamente per jeans e bretelle di Kerouac e Ginsberg (solo poche centinaia di dollari).
Ciò che però ha sfondato il muro del suono è il classico cesso. Sì, avete capito bene, proprio la tazza, il water, quella roba lì dove si opera in assoluta solitudine. Ne è andato all’asta su eBay uno imperdibile, dove avrebbe partorito i suoi straordinari pensieri nientepopodimenoche il grande J.D. Salinger. Bene il «sanitario Salinger» (chiamiamolo così), è accompagnato da una lettera di autentica da parte del proprietario dell’ultima casa dove ha vissuto l’autore del Giovane Holden. Racconta Repubblica che «l’oggetto è classico, lucidamente smaltato di bianco e di non eccessiva grandezza». E soprattutto che viene venduto alla ridicola cifra di un milione di dollari!
Ora. Non so come il venditore possa garantire che quello fu davvero il cesso del maestro, ma Duchamp ci insegna che è il gesto rivoluzionario che conta e non la sua storia. Ma ci terrei almeno a sapere chi sarà il coprofago letterario che se lo porterà in casa, e quale luogo (ispirato) della magione penserà di dedicargli. Noi appassionati salingeriani vigileremo.
Tutto ciò mi porta malinconicamente dalle nostre parti, per chiedervi quali oggetti del nostro tempo ci sopravviveranno. Penso per esempio alla politica, e mi chiedo se un giorno lontano un pronipote di Verdini riporterà in Italia (pensate, era finito in Azerbaijan) il lettone di Putin, accompagnato naturalmente da un’autentica scritta di suo pugno da Alfredo, il maggiordomo del Cavaliere. O se, giusto per restare a quell’epoca, troveranno in asta il riscontro che meritano, sul piano letterario, le appassionate missive che alcune meteorine scrissero «All’adorato direttore Emilio Fede». Io ho già lasciato la mia offerta scritta in busta chiusa. Concorrerà mio figlio.