Spence: “È l’era di Cina e India, l’Italia si riformi”

Spence: “È l’era di Cina e India, l’Italia si riformi”

«Alcuni aspetti del mercato italiano mostrano delle rigidità che inibiscono la produttività e l’adattamento ai mercati globali che cambiano», spiega a Linkiesta l’economista Michael Spence, premio Nobel nel 2001 per i suoi studi sulle asimmetrie informative e i loro effetti sul mercato. Nel suo nuovo libro, The Next Convergence: The Future of Economic Growth in Multispeed World, che uscirà in Italia a marzo, il professore parla di come i Paesi emergenti abbiano cambiato l’economia globale. «Ciò che oggi intimidisce è che il grado di interdipendenza globale non è accompagnato da effettive strutture di governance», dice Spence, che sull’Italia si professa ottimista nonostante la sua tardiva comprensione delle riforme necessarie a fronteggiare il cambiamento dei mercati mondiali. 

Il professor Michael Spence è uno dei più influenti economisti viventi. Nato in New Jersey nel 1943, vincitore del Nobel per l’economia nel 2001, Spence è conosciuto per i suoi studi pionieristici, a cominciare dal suo modello di segnalazione nel mercato del lavoro. Non a caso ha vinto il più alto riconoscimento a cui un economista può ambire, con Joseph Stiglitz e George Akerlof, proprio per le rivoluzionarie «analisi dei mercati con asimmetrie informative».

Ma Spence non scrive solo equazioni matematiche. A maggio è uscito per Farrar, Straus and Giroux il suo The Next Convergence: The Future of Economic Growth in Multispeed World. Inutile dire che il libro è subito diventato un caso internazionale. Il motivo di tanto interesse è semplice: Spence illustra, con cifre e fatti, i potenti meccanismi economici che stanno portando a un mondo più ricco, interdipendente e multipolare.

Un mondo senza più imperi coloniali. Dove la Rivoluzione industriale nata in Inghilterra tre secoli fa trasforma nazioni un tempo poverissime in locomotive dell’economia globale. Cina e India, si pensa subito. Ma anche Brasile. Argentina. Turchia. Indonesia. Arabia saudita. E prima o poi l’Africa, che già ora dà segni di grande vitalità economica e sociale.

Il divario secolare tra Occidente e Oriente, Nord e Sud, è alla fine. Una nuova convergenza globale, economica e geopolitica, si avvicina. Le sfide, naturalmente, sono immense, e nel suo libro Spence non lo nasconde. Ma anche le opportunità. Sempre che le si voglia davvero cogliere. Comprendendo la necessità di varare riforme strutturali, come ha fatto la Germania ai tempi di Gerhard Schröder. Nulla è perduto, nemmeno per l’Italia. Purché ci si adatti al cambiamento, spiega a Linkiesta l’economista.

Professore, il suo modello di segnalazione nel mercato del lavoro (job-market signaling model) è di fondamentale importanza. Di che si tratta?
Esistono molti mercati (auto usate, lavoro, finanza, assicurazioni) in cui i venditori sanno del loro prodotto più dei compratori. La segnalazione [signaling] è un’attività che ha lo scopo di inviare informazioni credibili dal venditore ai potenziali compratori. Il problema è che tutti i venditori hanno un incentivo a segnalare che il loro prodotto è di alta qualità. E se ognuno manda lo stesso segnale, non si distingue più un segnale dall’altro e perciò non si offre alcuna informazione utile. Per farla breve, nelle interazioni economiche e sociali i segnali efficaci sono quelli costosi da mandare, e i cui costi sono più bassi per i venditori con il prodotto di miglior qualità. Perciò le persone più adatte al mondo del lavoro ricevono un’istruzione più lunga e di migliore qualità, i venditori di auto usate offrono garanzie sulle auto di qualità superiore e non sui catorci e così via.

E qual è la sua opinione sul mercato del lavoro italiano?
Come in molti mercati del lavoro anche qui ci sono problemi. La disoccupazione è molto alta e colpisce soprattutto i più giovani. Alcuni aspetti del mercato italiano mostrano delle rigidità che inibiscono la produttività e l’adattamento ai mercati globali che cambiano. Questa sarà un’area in cui il nuovo governo cercherà di varare dei cambiamenti per rafforzare il potenziale di crescita e di occupazione. Devo dire che questi problemi però non riguardano solo l’Italia: infatti sono comuni a molti Paesi.

Il suo ultimo libro, The Next Convergence: The Future of Economic Growth in Multispeed World, è un bestseller, ma ancora non è stato tradotto in italiano. Di che cosa si occupa?
Lo stanno traducendo in italiano ora, e dovrebbe uscire in primavera, per Laterza. Il libro parla della crescita dei Paesi in via di sviluppo, e del loro crescente impatto sull’economia globale. Questa crescita non è iniziata se non dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando gli imperi coloniali furono smantellati e l’economia globale si aprì grazie al GATT, il predecessore del WTO, e grazie alle nuove tecnologie dei trasporti e della comunicazione. Oggi siamo a un bivio, dopo i primi sessant’anni di un viaggio lungo un secolo in cui i Paesi in via di sviluppo diventeranno sviluppati, cioè con redditi alti e più simili a Europa, America e Giappone. Il libro si sofferma anche sulle sfide che rimangono per completare questo viaggio. Sfide che riguardano la stabilità, la governance e la sostenibilità. In base alle attuali proiezioni, l’economia globale triplicherà di grandezza nei prossimi 25 anni. La Cina e l’India saranno i giganti economici del futuro. L’85% della popolazione mondiale avrà redditi relativamente alti, contro il 15% dopo la Seconda Guerra Mondiale e perfino oggi.

Attualmente sono in corso due rivoluzioni industriali: la prima nei Paesi sviluppati, come continuazione della Rivoluzione industriale che ebbe inizio in Inghilterra; la seconda nei Paesi in via di sviluppo, ed è una Rivoluzione inclusiva. L’italiano medio tuttavia potrebbe obbiettare che il boom industriale in corso nei Paesi in via di sviluppo sta danneggiando le economie di alcuni Paesi sviluppati, come l’Italia. Lei cosa risponderebbe?
L’ascesa dei Paesi in via di sviluppo ha fatto entrare nel mercato del lavoro globale centinaia di milioni di persone. Ciò sta imponendo cambiamenti strutturali a tutte le economie, incluse quelle avanzate come l’Italia. Tali cambiamenti strutturali sono difficili e stanno avanzando troppo lentamente, in parte perché la gente e i governi sono stati lenti a riconoscerne la necessità. La globalizzazione ha effetti distributivi perché i posti di lavoro si spostano in continuazione. I danni non sono inevitabili, ma per evitarli le economie dei vari Paesi devo adattarsi e cambiare continuamente. Tutto questo mette a disagio le persone, e le rende piuttosto timorose.

Il mondo sta diventando sempre più multipolare. Il G20 ha sostituito il G7 nel dettare l’agenda internazionale . Ma secondo lei il G20 sarà in grado di gestire il cambiamento globale meglio del vecchio G7?
Rispetto al G7 c’è più eterogeneità nel G20. Tutti questi Paesi sono abbastanza grandi e importanti, e devono stare lì. Ma sono molto diversi quanto a stadio di sviluppo, livello reddituale, forma di governo e altro. A questo punto non è chiaro se il G20 si trasformerà in un vero amministratore dell’interdipendenza globale. Ma non possiamo tornare al G7 perché i Paesi in via di sviluppo, nel complesso, valgono ora circa metà dell’economia globale. La Cina è la seconda più grande economia del pianeta (la terza, se consideriamo anche l’Unione europea). Perciò non abbiamo molta scelta eccetto che cercare di far funzionare il G20 nell’interesse della stabilità, dell’equità e della sostenibilità. È una grande sfida per la prossima generazione.

Qualche anno fa Kenneth Pomeranz ha dato alle stampe un libro di grande impatto, The Great Divergence, sulla divergenza, avvenuta nel Diciannovesimo secolo, tra la Cina in declino e l’Occidente in ascesa. Oggi invece parliamo di convergenza. Però molti temono che pure il nostro secolo sarà caratterizzato da una nuova divergenza: tra i vincitori della globalizzazione (quali la Cina e la Germania) e gli sconfitti (come i Paesi dell’Europa meridionale). Lei cosa pensa in merito?
Di nuovo, perdere [la sfida della globalizzazione] non è inevitabile. La Germania sta avendo abbastanza successo ora, ma la gente tende a dimenticare che era poco produttiva e stava perdendo competitività nel 2000. È passata attraverso un massiccio processo di riforme, che ne hanno cambiato la traiettoria. Ciò che stiamo vedendo oggi in altri Paesi è un analogo processo di riforme e adattamento all’economia globale, e alla sua struttura in mutamento. Non c’è ragione per pensare che un simile processo debba necessariamente fallire. Ciò che è preoccupante, è che in molti Paesi, incluse l’Italia e l’America, ci sia una comprensione tardiva e incompleta della sfida e delle necessarie riforme.

I Paesi in via di sviluppo si sono “assicurati” dalle tempeste dei mercati accumulando bond dei governi occidentali. Una mossa astuta.
Vista a posteriori sì, lo è stata. Ha aiutato durante la crisi. Hanno iniziato a fare questo in maniera significativa dopo la crisi del 1997-98, che colpì l’Asia e si diffuse in America latina e Russia. Hanno imparato molto e sono diventati manager macroeconomici molto più efficaci. La gente potrebbe dire che una simile autoassicurazione è costosa, e che sarebbe meglio mettere in comune i rischi. In parte è quello che dovrebbe fare, e fa, il Fondo Monetario Internazionale. Ma durante la Crisi asiatica molti Paesi sono arrivati a diffidare del Fondo, in parte perché era dominato dai Paesi avanzati, che tendevano a dettare politiche e riforme. 

Ultima domanda: lei è ottimista sul future di questo pianeta? E sul futuro dell’Italia?
Sì. Tendo a essere ottimista. Ci si può scoraggiare di fronte a politica e politiche disfunzionali. Ma tra noi ci sono molte competenze, e a volte anche pragmatismo. Ciò che oggi intimidisce è che il grado di interdipendenza globale non è accompagnato da effettive strutture di governance. È un po’ spaventoso perché tutto potrebbe sfuggire di mano, o a livello finanziario, o climatico o sanitario.

Ha collaborato alla traduzione Linda Omobono