Come era nelle attese, all’avvio dell’aumento di capitale le vendite hanno Unicredit in rosso. Il titolo, così come i diritti d’opzione, scambiabili da oggi al 20 gennaio prossimo, sono stati sospesi e poi riammessi più volte nel corso della seduta. Una situazione ampiamente prevedibile poiché solo il 24% dei diritti è già stato prenotato dagli attuali azionisti, che ora sembrano orientati a vendere per poi ricomprare, come peraltro nei giorni scorsi aveva già anticipato un report di Nomura ripreso dal Financial Times. Alla fine della giornata i diritti lasciano sul terreno il 65,4% del valore fissato venerdì scorso (1,36 euro) a 0,47 centesimi di euro, e il titolo cede il 12,81% a 2,28 euro, mentre il Ftse Mib, il principale listino della piazza milanese, termina le contrattazioni a -1,67 per cento con Banca Mps (-14,38%), Mediobanca (-6,87%) e Banco Popolare (-5,36%) tra i titoli peggiori. Sommando quindi il prezzo delle azioni di nuova emissione ai diritti, il prezzo che si ottiene è di 2,178 euro, sotto quindi la chiusura odierna. Segno che è ancora conveniente comprare i diritti ed esercitarli, e una buona previsione che domani sarà un’altra giornata lacrime e sangue.
Soltanto nei prossimi giorni si capirà se gli investitori oggi stanno vendendo per fare cassa e ricomprare azioni o diritti a prezzi più convenienti nei prossimi giorni, ma un dato è certo: con una performance simile a quella odierna anche domani, il titolo annullerebbe completamente lo sconto sul Terp (calcolato sui valori di chiusura di venerdì scorso) e con esso il valore dei relativi diritti. A quel punto il gioco potrebbe invertirsi: chi ha venduto le azioni in precedenza comprerà i diritti pressoché gratis, e sottoscriverà le azioni a valori poco superiori a 1,943 euro.
Un gioco molto rischioso perché rischia di replicare il canovaccio dell’aumento di capitale chiuso qualche mese fa dalla Banca popolare di Milano, con diritti in impennata e il prezzo delle azioni di nuova emissione superiore al valore dei titoli esistenti, una situazione devastante per i piccoli azionisti. I quali, nel caso di Piazza Meda, se ne tennero alla larga. Così pare stia capitando anche per la banca guidata da Federico Ghizzoni. Ieri, ad esempio, è arrivata la disdetta della Fondazione Banco di Sicilia, che possiede lo 0,32% del capitale di Unicredit. Le analogie con Bpm riguardano anche la capitalizzazione di Piazza Cordusio, scesa ormai – come Piazza Meda – al di sotto del valore dell’aumento di capitale.
Tuttavia, c’è anche chi ne sta approfittando per consolidare nuove posizioni, come Alessandro Proto Consulting, che dagli inizi di novembre detiene una quota dello 0,8% e ha annunciato oggi la propria volontà di aderire all’operazione per non diluirsi, «confermando piena e totale fiducia nel piano di sviluppo», come recita una nota della società.
Dalle sale operative il sentimento che prevale è il nervosismo. Alcuni trader, contattati da Linkiesta, confermano di aspettarsi oscillazioni significative per tutto il periodo di sottoscrizione. Le voci che arrivano da Piazza Cordusio, invece, sostengono che, nonostante una settimana chiusa lasciando sul terreno il 37% e un avvio di ottava in negativo, il top management non abbia perso la propria determinazione. D’altronde, è soltanto il primo giorno di sottoscrizione, e le quotazioni sono troppo convenienti rispetto ai multipli perché qualcuno non ne approfitti.
«È molto difficile assistere a una ripresa del mercato delle emissioni azionarie in Europa fino a quando gli investitori non vedranno un chiaro piano per risolvere la crisi del debito sovrano», ha detto a Euromoney Oliver Holbourn, responsabile dei collocamenti azionari presso Bank of America Merrill Lynch, una delle banche che fanno parte del consorzio di garanzia di Unicredit. «Non bisogna dimenticare che, esclusa la Gran Bretagna, il settore bancario europeo non è così ampio», prosegue Holbourn, che spiega: «la sua capitalizzazione complessiva è di 240 miliardi di euro, e con una raccolta interbancaria congelata gli istituti devono vendere complessivamente attivi pari a 2.800 miliardi di euro al fine di mantenere un rapporto tra impieghi e depositi inferiore al 100%». Una sottoscrizione dell’aumento inferiore al 98% è considerata dal mercato un fallimento, per questo già oggi fervono le manovre per non lasciare che Piazza Cordusio diventi facile preda di investitori con un’enorme liquidità da investire ma non intenzionati a condividere un progetto con lo zoccolo duro degli azionisti storici.
Twitter: @antoniovanuzzo