L’intervista doppia se la giocano Corriere e Repubblica, il tema è quello caldo dei riccastri che sgavazzano a Cortina a cui la Gdf ha fatto buh! e quelli si sono incazzati da bestia. Il Corriere sceglie il mitico gestore del Savoia, il settantenne commendator Santino Galbiati, mentre la Repubblica identifica il top di gamma con nostra signora Santanchè. Imperdibile il Santino, quando gli chiedono «adesso chi ha lì», nel senso di clienti: «Conto per l’esattezza 253 persone presenti. Nazionalità russa». E l’Andrea Galli giornalista, fintamente ingenuo: «E i rimanenti ospiti, da quali Paesi arrivano?» Galbiati sfiora il memorabile: «Non ha capito: sono tutti e 253 russi. E i commercianti di Cortina dovrebbero costruirmi una statua: ‘sti russi si chiudono dentro i negozi, comprano l’inverosimile. In pratica, li svaligiano, fanno girare l’economia da soli». Sugli scontrini, il Galbiati se la gioca con disinvoltura cortinese: «Mi scusi, cosa gliene frega agli stranieri? La questione interessa solo noi. Ci han trattati da criminali, gli ispettori fermavano i passanti chiedendo dove avessero preso i Rolex e se guadagnavano abbastanza per permetterseli. Diamo i numeri?»
La Santanchè, che non ha la statura del Galbiati Santino, sta sempre sul rancorosetto anzicheno, ma almeno converge con il liberale Ostellino, che sul Corsera lancia il suo grido di dolore: «Non criminalizzate la ricchezza». No, direttore, non si preoccupi. Rincara Danielona, tanto che si leva il sospetto che si siano parlati prima: «La ricchezza non va criminalizzata. E’ un bene del Paese. Mio padre mi ha insegnato che solo quello che si ruba si nasconde, mica la ricchezza che si è prodotta con il sudore della fronte» (sic). Dal suo rifugio in Provenza, Ostellino tratteggia i contorni di una vero e proprio complotto ai danni della categoria:«Con la caccia ai simboli della ricchezza – l’auto di una certa cilindrata, la proprietà di un appartamento, la frequentazione di certe località – stiamo rischiando di trasformare la (giusta) lotta all’evasione in un nuovo genere di lotta di classe. Non più quella marxiana, fondata sui rapporti di produzione, ma quella moralistica sulla ricchezza come colpa».
Come vedete, da pulpiti diversi, storie diverse, toni culturali diversi, si fa largo l’idea che sia necessario organizzarsi in una sorta di Wwf per difendere l’unicità di una condizione ultrafortunata, che sarebbe messa in pericolo da «rivendicazionismi che paiono più desiderio di vendetta che di giustizia sociale, e minacciano un’instabilità che non si sa dove possa portare» (sempre Ostellino).
Sarà il caso di mettere qualche puntino sulle i. A beneficio di Ostellino e della Santanchè, che sul piano squisitamente liberale sarebbe comunque un orrore accomunare. Non vorremmo finire a dover ricorrere al soglio morale di Boldi Massimo (cinepanettonista), il quale ha sentenziato che «questi qui non sono ricchi, sono finti ricchi». Ma andiamo avanti.
Sfidando volentieri il rischio d’essere considerato un malato di nostalgismo, vorremmo qui tratteggiare la figura del ricco, almeno quella di cui ricordiamo i tratti salienti e che ha caratterizzato una parte cospicua della nostra modernità. Questo signore, anche il più volgare della compagnia, era generalmente consapevole di quale società lo circondasse, sapendone le differenze più significative in termini di virtù e di difetti. Cosicchè, qualunque comportamento avesse deciso di scegliere, sapeva anche perfettamente che il suo bilancio personale sarebbe entrato in un conto (sociale) profitti-perdite inesorabile. Da cui, appunto, l’inesorabile giudizio della società. Ed erano proprio le società liberali più riconosciute – ricordiamo per esempio quella milanese degli anni sessanta – a determinarne il giudizio da parte della borghesia dell’epoca, che si occupava proprio di separare la parte buona dei ricchi, all’epoca chiamati «signori», da quella meno incline allo stile, in una parola: volgare. Ricordate i parvenu?
Bene, oggi vi sfiderei a tratteggiare questa differenza con la stessa attenzione e soprattutto con gli stessi risultati. Non so se per colpa di un decadimento morale diffuso, o di costumi che inevitabilmente cambiano, o anche della difficoltà, per i pochissimi signori rimasti, a ritagliarsi aree di minima ossigenazione, ma il problema è serissimo: se in superficie appare la ricchezza come antica categoria del pensiero, sotto forma di macchinoni, gioielli e case di lusso, abbiamo da tempo celebrato il funerale dei ricchi. Come categoria “alta”. E dunque, quando si dice o si scrive «non criminalizzate la ricchezza» (quando i ricchi non ci sono più), si commette almeno un’ingenuità storica, se non proprio la sottovalutazione consapevole di un’evidenza così solare.
E dunque, il temere che s’ingeneri un’altra lotta di classe, solo perché agli italiani che faticano e sbarcano il lunario girano altamente gli zebedei per un’indecenza senza pari, non è neppure un atteggiamento snobistico, ma purissima cecità da intellettuali persi in Provenza.