Catherine, in un videogioco il lato oscuro del Giappone

Catherine, in un videogioco il lato oscuro del Giappone

Se esiste un videogioco per capire il Giappone d’oggi, quello è Catherine, un giorco platform-horror della nipponica Atlus. Catherine ha come protagonista Vincent: un ingegnere informatico trentenne, con una passione per gli abiti italiani e una folta capigliatura nera che ricorda quella dell’ex-primo ministro Koizumi Junichiro. Il protagonista è il classico colletto bianco frustrato. Il suo lavoro è noioso e sfibrante. Passa ore chiuso in ufficio, davanti a un monitor, alle prese con bug e programmi che non funzionano. Le serate, invece, le trascorre quasi tutte al bar, ubriacandosi con un trio di amici ancora più nevrotici di lui. Ecco un primo elemento di realismo in Catherine: perché in Giappone superlavoro e alcolismo sono spesso due facce della stessa, triste medaglia.

Secondo le statistiche dell’Ocse, nel 2009, i lavoratori nipponici hanno lavorato oltre 1730 ore. I tedeschi appena 1309, i francesi 1469 e i britannici (i veri stacanovisti dell’Europa occidentale) 1630. In Giappone è prassi molto diffusa non conteggiare neanche le ore di straordinario. E infatti lì i dipendenti super-lavorano, e alcuni addirittura muoiono: di stress, fatica o depressione. È il cosiddetto karōshi, la morte per eccesso di lavoro. Vera e propria piaga sociale, il karōshi è la causa del decesso di impiegati-modello come Yuji Uendan, che nel 1999 si suicidò dopo aver lavorato oltre 250 ore in un solo mese. Quindi si registra la tendenza, da parte dei lavoratori giapponesi, ad un forte consumo di alcolici. In base alle statistiche, nel 2009 i giapponesi hanno consumato quasi 44 litri di birra a testa: un dato di poco inferiore a quello dell’Ucraina e superiore a quello del Belgio, il regno della birra. L’alcolismo diffuso costa al Giappone oltre 70 miliardi di dollari l’anno, ma a differenza del karōshi non è ancora considerato una vera e propria emergenza sociale. In Catherine Vincent ammazza le serate tracannando liquori, birra e cocktail vari. E proprio durante una delle sue sbornie incontra una ragazza bionda, con cui passa la notte. Si chiama Catherine, ed è lei a dare nome al gioco.

Il rapporto erotico che Vincent intreccia con questa donna misteriosa comporta il tradimento della storica fidanzata Katherine, con la k. A differenza di Catherine, sorta di geisha post-moderna, Katherine è una donna in carriera, energica e volitiva. Laureata, manager in una grande società di abbigliamento, Katherine ha recentemente scoperto di essere incinta di Vincent. Questo la spinge a invocare a gran voce il matrimonio, anche per garantire al pargolo una posizione rispettabile nella società. L’insistenza di Katherine non è ingiustificata. Benché il Giappone sia uno dei Paesi più innovativi del mondo, con eccellenti università e una spesa in ricerca e sviluppo altissima, la sua società resta conservatrice e maschilista, imbevuta degli antichi valori confuciani e scintoisti. Le donne ai vertici del business sono poche, e devono difendere la loro fragile posizione con le unghie e con i denti.

Come hanno ben raccontato profonde conoscitrici del Giappone quali Amélie Nothomb, alle donne nipponiche nulla viene perdonato: rimanere troppo a lungo zitelle, o avere un figlio al di fuori dal matrimonio, non rende di certo più facile la vita. E infatti, secondo il World Economic Forum, nella classifica sulla parità dei sessi, il Giappone è al novantottesimo posto; fa peggio di Paesi come El Salvador, la Malesia o il Tagikistan.

Questa disparità di genere nella società giapponese traspare anche in Catherine. Un altro elemento di realismo. Il giocatore, nei panni di Vincent, può decidere come relazionarsi con l’altro sesso: essere gentile o sgarbato, rispettoso o insolente. Quando, per esempio, Katherine invia un sms a Vincent chiedendogli dove sia, lui può inventare una cortese bugia o ordinarle di farsi gli affari suoi. Ma se da sveglio Vincent deve destreggiarsi tra le mille menzogne della sua doppia vita, quando dorme non va certo meglio. Ogni notte si ritrova infatti catapultato in una specie di universo parallelo da incubo, popolato da mostri e caproni antropomorfi in giacca e cravatta. Un universo assurdo, dove le leggi della fisica sono stravolte.

Naturalmente questo “luogo notturno”, degno di un horror coreano, ha molto di metaforico: i caproni sono i maschi nipponici che, spinti dai loro impulsi animaleschi, hanno tradito fidanzate e consorti; le pareti altissime, che Vincent e i caproni devono freneticamente scalare, sono i sensi di colpa e le bugie con cui, ogni giorno, deve fare i conti chi tradisce. Tuttavia quest’universo onirico non è il semplice parto dell’inconscio di Vincent: se il protagonista non riesce a scalare le pareti, precipitando così in uno dei burroni che si aprono sotto di lui, non muore solo in sogno, ma nel sonno. E infatti nel gioco i media continuano a parlare di una misteriosa epidemia, che colpisce maschi adulti all’apparenza sanissimi, ma che la mattina vengono trovati morti nei loro letti, quasi come sotto l’effetto di una terribile maledizione.

Per certi versi Catherine sembra ispirarsi ai romanzi di Murakami Haruki. Simile alle opere letterarie è la sua capacità di mescolare realtà e incubo; la frustrazione di una vita inappagata con l’orrore indicibile che penetra, misteriosamente ma irrimediabilmente, nel tran-tran quotidiano. Murakamiano è anche il gusto per la musica classica occidentale, che viene efficacemente alternata a melodie pop.

Molto valida anche la grafica. Giustamente i programmatori di Catherine hanno scelto uno stile tipico giapponese, gli anime. Ed ecco quindi il cel-shading, tecnica grafica capace di accostare oggetti tridimensionali ad altri che sembrano disegnati a mano, e che ben si sposa con le sequenze totalmente bidimensionali delle scene d’intermezzo. Il gameplay, poi, si rivela abbastanza vario. Se nelle fasi “da sveglio” il giocatore deve intessere complicati rapporti sociali (ad esempio scambiando sms con la fidanzata e l’amante, o dando suggerimenti ad amici e conoscenti), nelle fasi “da addormentato” tutto cambia. Qui il giocatore deve fare i conti con mostri, trappole e inganni vari, saltando, correndo e lottando sempre contro il tempo.

Giocando con Catherine si ha perfino l’impressione che gli sceneggiatori del gioco abbiano un senso di giustizia karmica particolarmente sviluppato. L’universo parallelo in cui Vincent precipita ogni notte può apparire dantesco: i caproni antropomorfi sembrano condannati a espiare la loro lussuria in perpetuo, e pazienza se nella vita precedente erano manager di successo o banchieri potentissimi. Tuttavia le pareti su cui devono faticosamente arrampicarsi rappresentano forse la possibilità di redenzione (tanto è vero che periodicamente il giocatore deve rispondere a veri e propri test etici, come “Cosa conta di più? Amare o essere amati?”). Nel complesso Catherine è un gioco che non delude. Diverte, inchioda al video e ha anche un interessante risvolto pedagogico e di lettura del Giappone contemporaneo.

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