Nei giorni scorsi la Russia e la Repubblica popolare cinese hanno esercitato il loro diritto di veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È stata così bocciata la risoluzione proposta da una maggioranza della Lega Araba e dalla grande maggioranza dei paesi occidentali, rappresentati o non nel Consiglio. Prevedeva un insieme di ampie sanzioni economiche e finanziarie per Damasco. Tra le misure era compresa la rinuncia alla presidenza per Bashar Al Assad (in pratica la fine del regime quarantennale del clan alawita) a favore del vice presidente, lo stop all’occupazione militare delle città di Homs, Hama e di altri centri della rivolta, la fine delle stragi che hanno portato alla morte di circa seimila persone, per non parlare di arresti arbitrari e torture.
Fino a qualche anno fa Bashar Al Assad, figlio secondogenito di Hafez, lo spietato presidente ed ex ministro della difesa e leader del Partito socialista della Resurrezione panaraba (comando siriano) Baath, sembrava il paladino della modernizzazione e della democratizzazione nel suo paese. Le speranze in lui riposte si sono gradualmente affievolite e, con lo scoppio della primavera araba anche la Siria è stata travolta dal turbine democratico che ha portato alla ribalta l’Islam relativamente moderato e parlamentare che intende sbarazzarsi delle dittature laiche militari che hanno caratterizzato quest’ultimo mezzo secolo in quasi tutto il Medio Oriente e il Nord Africa arabo.
Perché la Russia di Vladimir Putin e Dimitri Medvedev e la Cina di Wen Ja Bao e Hu Jin Tao hanno posto il loro veto alla risoluzione arabo-occidentale in seno alle Nazioni Unite? La maggior parte dei giornali italiani e internazionali si è accordata nel ritenere che Russia e Cina, in primo luogo, osteggiassero una rinascita democratica nel mondo arabo in quanto, esse stesse, regimi autoritari, quando non dittatoriali. In ciò c’è una parte di verità. Ma non sembra la causa principale. La Russia ha a Tartus (l’antica Tortosa) l’unica base navale nel Mediterraneo e ha nella Siria un importante cliente-debitore per i propri armamenti più moderni. Tutti appaiono essere elementi concreti che possono spiegare la posizione russa.
Né argomento principale pare essere quello del caso libico, in cui l’astensione russa e cinese al Consiglio di Sicurezza circa la protezione delle popolazioni civili dalla furia vendicatrice di Gheddafi fu interpretata come un lasciapassare per un “regime change” (cioè l’abbattimento effettivo dello stato gheddafiano), anche se questo aspetto agli occhi dei russi e dei cinesi ha contato parecchio. Per onestà intellettuale dobbiamo ammettere che dell’abbattimento dello Stato gheddafiano da parte della Nato, in qualche modo, pur con la scarsissima partecipazione dell’Italia, fummo particolarmente contenti.
Siamo, invece, propensi a credere un’altra cosa. Il veto russo e cinese nei confronti di un “regime change”, basato sia su sanzioni internazionali, sia su eventuali interventi militari esterni, che sono stati lasciati trasparire dal Dipartimento di Stato Usa e, del resto, vengono invocati dal senatore repubblicano John Mc Cain (ad esempio, l’armamento pubblico dell’opposizione armata ad Assad, sotto varie forme, come la creazione di “corridoi umanitari” al confine con la Turchia, con il Libano e con la Giordania) costituiscono gli ingredienti per una guerra mediorientale su grande scala. Con il possibile coinvolgimento di Israele.
Del resto, che Tel Aviv eserciti un pressante interessamento per la caduta di Assad ci è dimostrato dall’articolo sullo International Herald Tribune del 9 /2/ 2012, scritto da Hefraim Halevy, già capo del Mossad. Siamo, cioè, propensi a credere che qualche forma di intervento internazionale nella crisi siriana sia il prodromo diretto di un coinvolgimento in un già minacciato intervento disgiunto (o congiunto) contro l’Iran, che si sta dotando dell’arma nucleare. Il tutto all’interno della finestra temporale già definita dagli strateghi israeliani: quella che va da aprile a giugno, o meglio, fino a settembre 2012 per non sembrare calcare troppo la mano sulle elezioni presidenziali e di rinnovo del Congresso e del Senato degli Stati Uniti. Un po’ di rispetto formale, forse, ci vuole anche tra alleati disposti a tutto.
L’opposizione siriana al regime degli Assad è assai divisa. Troviamo un gruppo principale, vicino alla Fratellanza Mussulmana e maggiormente presente e riconosciuto all’estero (il Consiglio nazionale siriano) e una seconda formazione più incline, in un primo tempo, al dialogo con il governo: l’Organizzazione di coordinazione nazionale. Vi sono, infine, dei comitati di resistenza locali che sembrano essere gli organismi più influenti.
Vi è, poi, l’Armata per la libera Siria, formata da generali, ufficiali di ogni grado e soldati (ormai parecchie migliaia) che hanno disertato con le proprie armi, generalmente abbastanza leggere, le file delle unità meno compatte. Come è noto, i bastioni del regime sono la 4° divisione blindata e la Guardia Repubblicana, entrambi sotto l’alta supervisione dei vertici militari alawiti e del fratello minore di Bashar Al Assad, il sanguinario Maher. Queste formazioni militari e altri gruppi scelti sono i principali responsabili del bagno di sangue che, secondo le ultime stime, ha fatto oltre 7 mila morti in undici mesi, a trent’anni dai famosi massacri di Hama del 1982 (che fecero circa 20 mila morti) contro i Fratelli Musulmani a opera direttamente dello zio di Bashar, Rifaat Al Assad, da anni indisturbato ospite della Francia.
La primavera araba, di cui la rivolta siriana è uno dei capisaldi, ha prevalentemente un segno democratico e parlamentare che guarda alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan come ad un modello politico ed economico da seguire. E forse anche questa non è tra le cose che entusiasmano Mosca, interessata piuttosto a far valere, col tempo, una propria mediazione. Ma, come abbiamo già sottolineato, un intervento internazionale con conseguente abbattimento dello Stato baathista che, del resto, è riuscito nel tempo a riunire attorno a sé anche i cristiani, i drusi e altre comunità minori (con consistenti settori di borghesia urbana sunnita a Damasco e ad Aleppo) suona male agli orecchi dei vicini. Del governo libanese di Najib Mikati, cristiano, ma vicino agli hezbollah sciiti, ad esempio. Ma anche di quello iraqeno dello sciita Nur Abdel Maliki, molto vicino a Teheran, del governo giordano di re Abdallah, formalmente schierato con il fronte arabo, in realtà assai preoccupato di quanto potrebbe avvenire a Damasco. Nella capitale siriana non è affatto chiaro se le forze sunnite, che compongono il grosso dell’opposizione ad Assad, assomiglino più al pragmatismo dei Fratelli Musulmani egiziani o al Salafismo di importazione saudita. Quello che, con i propri petrodollari è riuscito a creare dal nulla in poche settimane un proprio partito (al Nur, la luce) in Egitto e a fargli raggiungere quasi il 25% dei voti.
In ogni modo, una guerra aerea e missilistica contro l’Iran tra aprile e giugno (periodo in cui, come si è lasciato sfuggire il segretario alla Difesa Usa Leon Panetta, i cieli sarebbero sgombri) rischia di trascinare gli Stati Uniti al carro di Israele. Chi conosce il Vicino e il Medio Oriente sa benissimo che i cieli di quella contrada sono sgombri fino al tardo autunno. Gli ingombri possono venire solo dalle scadenze politiche ed elettorali. Dovendo soppesare i pro e i contro di una guerra americana all’Iran, Barack Obama sembra intravederne più gli svantaggi economici che i possibili vantaggi d’immagine, tanto cari alla signora Hillary Clinton. E lei vedrebbe anche volentieri il primo presidente nero sfracellarsi su un’impennata del prezzo del petrolio. O qualcosa del genere.