Da Italia ‘90 al fair play finanziario: viaggio nel nostro calcio in declino

Da Italia ‘90 al fair play finanziario: viaggio nel nostro calcio in declino

(Clicca per vedere l’infografica Deloitte Football Money League 2012)

Chi ha passato l’adolescenza ed è devoto al Dio Pallone ricorderà con nostalgia i bei tempi in cui l’Italia era l’ombelico del mondo del calcio. Non serve tornare indietro agli anni in cui Zico giocava nell’Udinese e in cui, contemporaneamente, calcavano i campi di calcio dello Stivale Maradona, Van Basten, Gullit, Matthaeus e altri pezzi da novanta. Ma è un dato di fatto che oggi la Serie A abbia perso – forse definitivamente – l’appeal e il primato di cui ha goduto. C’è un inizio della fine: i Mondiali di calcio del 1990.

D’altronde, è proprio dal ‘90 che il giocattolo ha iniziato, inesorabilmente, a rompersi, anche se gli spettatori ce ne sono accorti quando ormai era troppo tardi. Alla base del declino, investimenti sbagliati, politiche economiche dissennate, brocchi strapagati e campioni lasciati andare a cuor leggero. Il tutto mescolato con un po’ di doping, qualche scommessa e crack finanziari. Il risultato – ovviamente indigesto – è lo spettacolo penoso cui ormai si assiste ogni domenica. Perché se lo spread che più preoccupa il nostro Paese è quello dei titoli di stato con gli analoghi tedeschi, è evidente che c’è un altro divario che ogni anno si amplia: quello tra il calcio italiano e gli altri campionati europei di eguale livello.

Mondiali di calcio del ‘90. Se si vogliono scandagliare cause e meccanismo di diffusione della malattia del pallone, si arriva immancabilmente al torneo più ambito. Affidato all’Italia nel 1984, ebbe come presidente del comitato organizzatore Luca Cordero di Montezemolo, allora 39enne manager della Ferrari. «Voglio far avverare un sogno» disse uno dei futuri proprietari dell’operatore di treni ad alta velocità Ntv. A conti fatti, il risveglio è stato traumatico. I 12 stadi teatro delle “notti magiche” – come cantavano Bennato e la Nannini quell’estate – hanno necessitato di lavori strutturali di ampliamento o ammodernamento. Il primo preventivo presentato al governo fu di 680 miliardi di lire, che levitarono ben presto dell’84%, raggiungendo la cifra di 1.248 miliardi. Al cambio attuale sarebbero oltre 645 milioni di euro, ma andrebbero parametrati con l’inflazione. Per poter sostenere una spesa di quel tipo, l’Italia si indebitò pesantemente tanto che oggi, a distanza di 22 anni, vengono ancora corrisposti 55 milioni di euro per pagare strutture che in alcuni casi andrebbero completamente ricostruite.

Senza contare che per ottenere un risultato ancora più d’impatto, si coinvolsero archistar come Renzo Piano (che firmò il progetto dello Stadio San Nicola di Bari). E che cosa se ne faranno a Bari di uno stadio da quasi 60mila posti quando la squadra occupa attualmente il 10° posto nel campionato di Serie B e dal campionato seguente alla Coppa del Mondo ha trascorso più tempo nelle serie cadetta che in A? E lo Stadio Olimpico di Roma e il Delle Alpi di Torino (nel frattempo demolito) avranno tratto straordinari benefici da una pista di atletica quando tutti gli impianti calcistici d’Europa prediligono stadi più raccolti e più “a picco” sul terreno di gioco? Senza contare che sempre per i Mondiali furono realizzate altre opere imprescindibili come la stazione di Farneto a Roma, costata 15 miliardi e utilizzata quattro giorni. Si dirà: che c’entra questo con il calcio? C’entra non solo con il pallone ma, più in generale, con lo sport tutto, visto che il pagamento dei debiti di Italia ‘90 depaupera l’intero sistema privandolo di risorse che potrebbero essere vitali.

Gli stadi: da almeno 15 anni si sente parlare con insistenza di stadi di proprietà e cittadelle sportive. Perché? Perché permetterebbero alle società, a fronte di un investimento stimato tra i 100 e i 200 milioni di euro, di poter incassare tutti i proventi delle partite (non solo i biglietti, ma anche merchandising, servizi ristorazione, parcheggi e via dicendo). Peccato che soltanto la Juventus sia riuscita in questa impresa, inaugurando proprio in questa stagione lo “Juventus Stadium”, sorto sulle ceneri del defunto Delle Alpi. Un investimento importante che ha però portato la società ad essere completamente indipendente rispetto al comune di Torino. E, non è un caso, lo Juventus Stadium è l’unico a far registrare spesso il tutto esaurito, essendosi dotato di una struttura moderna ed efficiente, sulla scorta di quanto avviene in Inghilterra. La capienza? Dai 69mila 295 posti a sedere del vecchio Delle Alpi (puntualmente semivuoto) si è passati ai 41mila dell’attuale struttura. Un “dimagrimento” di quasi 30.000 posti che sembra essere una scelta azzeccata.

Nelle prime tre giornate del campionato 2010-2011, la Juventus aveva totalizzato 63mila 950 ingressi complessivi, mentre in questo campionato la cifra ha raggiunto le 108mila 880 unità, con un incremento del 70 per cento. Anche la Fiorentina dei fratelli Della Valle ha cercato di costruire uno stadio di proprietà con annessa cittadella dello sport. Ma i veti del comune li hanno fatti desistere che da allora hanno di molto ridotto i loro investimenti nella società gigliata. A Milano invece il Comune dà in concessione lo stadio al Milan, che a sua volta lo affitta all’Inter. Il risultato è che il Meazza è spesso semivuoto (per la sfida di Champions League tra Inter e Cska Mosca sono state registrate circa 7mila presenze, meno di un decimo della capienza complessiva dell’impianto), le strutture sono fatiscenti, il manto erboso rende alcune partite pressoché ingiocabili.

Nel frattempo, Spagna, Inghilterra e Germania dotano le loro squadre di stadi di proprietà che fruttano enormi proventi e permettono loro di ampliare ogni anno di più il gap con il nostro Paese. Prendiamo, ad esempio, la giornata 23esima giornata del campionato in corso e confrontiamola, per numero di spettatori, con quella inglese giocata nello stesso week end: 17mila 622 spettatori di media a partita per la Serie A nostrana e 33mila 470 in Inghilterra. Anche il singolo confronto tra partite è desolante: la più vista della 23esima giornata italiana è stata Lazio-Cesena, con 23mila 129 spettatori; in Inghilterra Manchester United-Liverpool ne ha attirati 74mila 844. Né dà conforto il paragone tra il valore assoluto degli introiti dei biglietti: la Serie A incassa circa 200 milioni all’anno, la Bundesliga tedesca 380, la Liga spagnola 440 e la Premier League inglese 649 milioni.

Una curva dello Stadio Meazza in San Siro (Flickr – Bas Lammers)

Lo stadio San Paolo di Napoli (Flickr – SheaAk)

Stadio San Nicola di Bari, realizzato per i Mondiali di Italia 90, disegnato da Renzo Piano (Flickr – Paolo Margari)

Serie A e giocatori. Dagli stadi alle politiche finanziarie dei club il passo è breve. Qui il discorso potrebbe andare avanti per ore, ma basta ricordare i capisaldi della scellerata gestione economica. I calciatori, che un tempo facevano a gara per venire in Italia, oggi preferiscono senza dubbio Spagna e Inghilterra, a meno che non li si paghi a peso d’oro (Eto’o percepiva l’anno scorso 10,5 milioni di euro, Ibrahimovic quest’anno, calciatore più pagato della serie A, è a quota 9,5). Non dimentichiamo che le retribuzioni nette dei calciatori vanno raddoppiate per capire quanto gravano realmente sulle casse delle società. Da quando la Serie A ha deciso di allargarsi a 20 squadre, è diventata di una noia abissale, almeno a giudicare dai dati sulle affluenze. Non può essere addotto come giustificazione lo “spezzettamento” del campionato che inizia il venerdì sera e finisce il lunedì, anche perché lo stesso succede in Inghilterra, senza che questo crei una diminuzione così traumatica degli spettatori. L’ultimo acquisto di un giocatore giovane, futuro campione anche se ancora non di fama planetaria, risale al 2004, quando la Juventus prelevò dall’Ajax Zlatan Ibrahimovic. Da allora sono arrivati in Italia o giovani speranze (spesso rimaste tali) o calciatori sul viale del tramonto (Ronaldinho, tanto per fare un esempio) pagati spesso a peso d’oro. I giocatori più rappresentativi cercano di strappare contratti all’estero: nella sola estate del 2011 sono stati ceduti Javier Pastore per 42 milioni al Paris Saint Germain, Alexis Sanchez al Barcelona per 38 e Samuel Eto’o all’Anzhi per 27. Senza che nessuno di loro venisse rimpiazzato adeguatamente.

C’è anche da sottolineare una palese inadeguatezza dei dirigenti italiani che, vincolati da bilanci sempre più deficitari, tentano il colpaccio quasi sempre fallendo: basti, per riassumere la situazione, il caso di Diego Forlan, acquistato dall’Inter nell’agosto scorso per 4,6 milioni di euro per sostituire Eto’o. Peccato che si sia scoperto, troppo tardi, che Forlan non era schierabile in Champions League per l’intera fase a gironi perché aveva già disputato i preliminari di Europa League. Una svista che poteva costare carissima al management di Via Durini. Sempre l’Inter, d’altronde, ha scelto di impiegare i proventi dalla cessione dello straordinario attaccante camerunense per acquistare, oltre a Forlan, Ricky Alvarez, talento in erba pagato 12 milioni (e fin qui risultato pressoché nullo), il misterioso terzino destro brasiliano Jonathan, anch’egli pagato 4,5 milioni, il diciottenne attaccante Castaignos, costato 1,5 milioni e l’inutilissimo Mauro Zarate, pagato – per il solo prestito – 2,7 milioni. Il conto è presto fatto: i 27 milioni della cessione di Eto’o, invece che essere impiegati per acquistare un unico giocatore di valore, sono stati atomizzati in cinque investimenti privi di spessore.

L’exploit in Champions League dell’Inter nel 2010 rischia così di diventare la drammatica eccezione che conferma la regola, visto che puntualmente tutti i principali club nostrani chiudono i propri bilanci con pesanti passivi che devono essere ripianati dagli azionisti di maggioranza (su tutti l’Inter, che ha presentato nel giugno del 2011 un bilancio con una perdita di 86 milioni). Nel frattempo, la capacità di attrarre investitori continua a latitare, tanto che nella classifica dei club più ricchi del mondo stilata dall Deloitte a febbraio, la prima squadra italiana è il Milan, con un fatturato di 235 milioni di euro, in calo del 6,7% rispetto all’esercizio precedente e, soprattutto, più che doppiata dal Real Madrid (479 milioni) e quasi altrettanto dal Barcelona (450 milioni). Ancora più preoccupante la situazione dei bilanci italiani se la si guarda scomponendo i dati: dei 211,4 milioni di fatturato dell’Inter, il 59% (124,4) proviene dalla vendita di diritti tv; il 25% dalla vendita di biglietti e il 16% dalla pubblicità e dal merchandising. Cifre impietose che testimoniano come solo una netta inversione di rotta potrebbe far cambiare qualcosa.

Un ultimo, non trascurabile dettaglio è rappresentato dal Fair Play Finanziario, la norma voluta dal presidente Uefa Platini che costringe le società a spendere soltanto quanto incassato senza più passivi da record. Come faranno Inter e Milan, che impiegano oltre l’80% del ricavato per pagare gli stipendi, a finanziare nuovi investimenti e ad acquistare cartellini di giocatori importanti? È vero che la tassazione differente (in Spagna per pagare un calciatore 8 milioni di euro all’anno ne servono 12, in Italia 16) crea una situazione di oggettivo svantaggio per le società italiane. Ma, al contempo, è vero anche che manca sempre più quell’ingegno italico nel trovare giocatori importanti a prezzi adeguati, un po’ come fece il Milan con Kakà. In attesa che qualcosa cambi davvero, non rimane che sintonizzarsi su un altro campionato. 

Infografica Deloitte Football Money League 2012

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