Massimo Amato è professore di Storia economica all’università Bocconi e studioso di Storia delle istituzioni e del pensiero monetario. Insieme a Luca Fantacci, è autore del volume Fine della finanza, recentemente tradotto in inglese, un libro che analizza la crisi scaturita a partire dal 2007 nell’ottica di una storia delle istituzioni monetarie internazionali e propone un modo alternativo di pensare e organizzare i rapporti economici, attraverso un differente ruolo della moneta. Massimo Amato ha da oltre due anni intrapreso una collaborazione con l’Institut d’Etudes Avancéès e la Mairie di Nantes proprio al fine di intraprendere la realizzazione di un nuovo sistema monetario, complementare all’euro, incardinato sulla dimensione locale e sul principio della compensazione.
Professor Amato, ci sono varie letture dei meccanismi che hanno condotto l’economia europea alla situazione attuale. Risulta però complesso ricondurre queste svariate fenomenologie a una spiegazione strutturale delle ragioni alla base della crisi attuale.
È vero. Diciamo allora qualcosa di semplice ma cruciale: la crisi attuale non è stata causata da eccessi all’interno di un sistema finanziario fondamentalmente sano, ma è la conseguenza necessaria di un modello disfunzionale. E il paradosso è proprio che una crisi che ha rivelato la strutturalità di tali disfunzioni non abbia condotto, se non in una prima fase e in genere in modo molto retorico, a pronunciarsi per un ripensamento delle strutture finanziarie così come le abbiamo conosciute negli ultimi trent’anni. La finanza è anzi tornata a dettare legge, all’economia e alla politica.
Ma perché le risposte della politica si sono mosse in questa direzione? Era l’unica strada possibile oppure c’è un problema di capturing del sistema politico da parte del sistema finanziario?
A essere “catturati” non sono i politici dai finanzieri: siamo un po’ tutti catturati da un principio insensato di organizzazione della finanza, che presuppone l’esistenza di debiti fatti non per essere pagati ma per essere venduti su un mercato. Fino a che si ha fiducia nella vendibilità dei titoli sul mercato, c’è liquidità e il sistema può andare avanti, rifinanziando i debitori. Ma quando la fiducia, per una ragione o per l’altra, viene a mancare, la liquidità sparisce ed ecco la crisi, il cui effetto drammatico è che la finanza ha smesso di svolgere, anche solo per accidente, la sua funzione fondamentale, che è quella di fornire all’economia reale tutto il credito e la moneta che le servono per funzionare bene.
Che cosa fare, allora?
Se in Europa potessimo iniziare da zero, potremmo immaginare di cominciare da una camera di compensazione europea che riprendesse i principi fondamentali dell’Unione Europea dei Pagamenti e che si fondasse sul principio per cui la convergenza verso l’equilibrio è un obbligo sia per i creditori che per i debitori. Questo permetterebbe di costruire debiti che siano fatti per essere pagati. Il problema è che, in questi 10 anni di iper-finanziarizzazione dell’economia europea, sono stati accumulati squilibri che non possono essere messi da parte e che non possono essere riassorbiti in una notte. C’è dunque la questione di come smettere di accumulare squilibri e di come iniziare a smaltire quelli accumulati, e le due cose devono poter stare assieme.
Quando parla di asimmetrie tra creditori e debitori, è impossibile non pensare al rapporto tra la Germania e i suoi partner commerciali europei, in particolare la Grecia…
Merkel, e con lei buona parte dell’opinione pubblica tedesca, sembra immaginare che tra debitore e creditore vi sia una relazione gerarchica, in cui il creditore è portatore di un diritto assoluto. Ma è una posizione a ben vedere insostenibile, non perché sia più virtuoso essere debitori che creditori, ma perché la virtù deve essere un comportamento potenzialmente accessibile a tutti, cioè universale. Essere creditore non è una condizione universale, dal momento che l’esistenza del creditore implica anche l’esistenza, complementare, del debitore, e dunque l’auspicabilità di un rapporto di collaborazione. Non virtuoso è innanzitutto il sistema attuale, che non chiama i debitori a i creditori a cooperare.
Una riforma della finanza basata sul principio di solidarietà tra debitore e creditore sembra un progetto utopistico, alla luce del dibattito attuale.
Utopistico è un aggettivo che userei con molta parsimonia: se per utopistico si intende impossibile non mi interessa, se invece per utopistico si intende difficilmente praticabile, allora la questione diventa quella di determinare i gradi di praticabilità di una riforma della finanza e comprendere quale sia il ruolo della politica nel rendere praticabili scelte che sono anche preferibili, assecondandole sulla base di principi facilmente condivisibili e chiaramente enunciabili.
Quali sono questi principi?
Uno è quello della cooperazione: bisogna che la politica promuova schemi di cooperazione, e che ancora prima individui ambiti in cui la cooperazione è più forte e più efficiente della concorrenza. Uno di questi ambiti è, a mio parere, la finanza. L’altro principio è la sussidiarietà, poiché la radice del problema è proprio legata al fatto che abbiamo chiesto alla finanza di globalizzarsi allo scopo di finanziare localmente, nell’ipotesi che questa fosse una scelta efficiente. Oltre un certo livello, tuttavia, gli intermediari finanziari non godono più di economie ma di diseconomie di scala, che si misurano nel fatto che la concessione di credito è dovuto diventare un meccanismo puramente legato alle condizioni di liquidità dei mercati e non alla solvibilità reale dei debitori.
Bisogna dunque inventare un nuovo metodo di concedere credito?
Non c’è nulla da inventare, semmai c’è qualcosa da riscoprire. Le banche cooperative, per esempio, hanno una capacità di valutazione del merito creditizio in sede locale molto più efficiente di qualunque procedura standardizzata a livello globale, per il semplice fatto che conoscono i loro clienti faccia a faccia e non attraverso la compilazione di moduli. Ora, anche se non si tratta di abolire il piano globale, è molto più verosimile che i punti di partenza siano locali. Cooperazione e sussidiarietà messe assieme danno come risultato la finanza locale: forme di cooperazione tra attori che possono mettersi d’accordo perché hanno interessi in comune, e cui va accordata la possibilità di non chiedere a piani superiori di fare ciò che possono fare autonomamente. Non serve tanto una regolamentazione obbligatoria, occorre invece favorire una riorganizzazione consensuale.
E quali strumenti potrebbero essere funzionali a questa riforma?
Tutte le forme di credito e di finanza che hanno un tratto cooperativo. Anche le monete locali complementari possono essere utili. La moneta deve essere unica solo se lo spazio economico che serve è realmente omogeneo. Ma io una distinzione continuo a vederla: è quella tra le monete nazionali e la moneta internazionale. Siccome c’è una profonda differenza tra scambi internazionali e scambi all’interno delle nazioni, la possibilità di una complementarietà fra monete nazionali e moneta internazionale (nel senso più banale del termine, che non sia cioè la moneta nazionale di nessun paese) potrebbe essere ripresa anche nei termini di una complementarietà tra moneta nazionale e monete locali.
Intende dire che, dal sistema unico dell’euro, dovremmo muoverci verso un sistema di pluralismo monetario?
Non bisogna uscire dall’euro. Schemi di compensazione si potrebbero fare anche con l’euro. Il problema, in realtà, non è cambiare i nomi ma ridefinire i rapporti tra le funzioni della moneta. Se riuscissimo a realizzare schemi finanziari che non presuppongano la moneta come riserva di valore, questi schemi potrebbero funzionare parallelamente alla moneta ufficiale di riserva. In questo momento, le tensioni cui è sottoposto il sistema dell’euro, con la sua peculiare rigidità, spingono a vedere la questione in termini di un aut aut: o teniamo l’euro o torniamo alle monete nazionali. Invece sarebbe possibile pensare a un sistema europeo compatibile con il mantenimento dell’euro e con la costituzione di circuiti complementari di monete nazionali, regionali, locali.
Come ha mostrato Linkiesta in vari articoli, di monete locali ce ne sono tante e anzi il fenomeno appare di dimensioni sempre crescenti. Eppure, le monete locali non sembrano riuscire a rivestire il ruolo di alternativa sistemica che lei, in qualche modo, tende ad attribuirgli.
È indubbio che le esperienze delle monete locali esistano già e siano tante e, per quanto si possa pensare che ci sia gente con tanto tempo da perdere, quando questa gente diventa tanta ha forse senso pensare che esista un’esigenza reale a cui si sta tentando di rispondere. Tuttavia l’esistenza del bisogno e della buona volontà non implica che le risposte attuali siano di per sé adeguate.
Allora quali sono i difetti da cui devono essere esenti le monete locali per essere considerate buone risposte?
Sono due. Innanzitutto, non devono riprodurre su scala locale gli stessi difetti delle monete di cui vogliono essere complementi. Posto che noi abbiamo una moneta potenzialmente deflativa, si tratta di non costituire monete locali potenzialmente deflative. Dovrebbero dunque essere monete che non abbiano il tratto della riserva di valore, che non possano cioè essere accumulate indefinitamente. Questa è però una condizione necessaria ma non sufficiente, perché il problema a quel punto è: una volta che circola, che tipo e che ordine di grandezza e di scambi riesce a mobilitare? Allora questa moneta, che serve gli scambi non tramite la sua quantità ma attraverso la sua velocità di circolazione, deve poter attingere a una massa critica sufficiente per poter avere effetto sull’economia locale nella quale viene utilizzata. Del resto, molte delle monete locali già esistenti sopravvivono proprio perché non raggiungono tale massa critica. Ma una moneta che non tocchi almeno il 10-15% degli scambi locali è una moneta di importanza marginale. Poco cambia se siamo al livello di un quartiere o di una nazione.
Ma chi potrebbe essere interessato a un progetto e a una moneta di questo tipo?
In questo momento, il contratto che si tratta di rinnovare è il contratto tra i produttori, tra le imprese e i loro dipendenti e quindi tra profitto e salario, in nome del fatto che entrambi, se pure in modo diverso, sono redditi da lavoro e hanno a che fare con l’economia reale. Da cosa si tratta di difendersi? Dagli effetti nefasti della rendita, che sono nefasti evidentemente per il lavoro, cui si chiede sempre maggiore flessibilità. Sono passate poche settimane da quando il governo Monti, se c’era ancora bisogno di capire come fosse orientato, si è espresso chiaramente, dicendo alla Borsa: voi svolgete un ruolo essenziale e noi vi offriremo ciò che chiedete, ossia una riforma del mercato del lavoro nel senso della flessibilizzazione, che le parti siano interessate e o meno. Ma sono nefasti anche per il profitto, anche se la cosa è un po’ meno visibile
È stata una scelta di campo?
Certamente, si è andati nel luogo della rendita a dire che il salario si dovrà adattare. Mi sembra di poter dire che vi è una politica che, sapendo esattamente cosa fare, lo sta facendo benissimo, anche perché ha dalla sua parte la forza dello status quo. Deve fare funzionare alcuni meccanismi costi quel che costi, scaricando il peso di tale aggiustamento su chi è meno organizzato per poterselo togliere di dosso. Ma non è impossibile pensare a un’altra politica, che deve passare per la riforma e che dovrebbe avere in chiaro che tipo di alleanze vanno fatte. Io penso che la classe imprenditoriale non debba tanto fondare nuovi partiti, ma semplicemente cercare di essere classe imprenditoriale, e smettere di essere sedotta dalla rendita, perché le imprese si sono finanziarizzate e, quando parliamo di imprese e di imprenditori, dobbiamo sempre chiederci se parliamo di imprenditori lato sensu schumpeteriani o se, invece, stiamo parlando di finanzieri sotto mentite spoglie. Aggiungo una cosa…
Prego
Questa alleanza è compatibile con una liberazione dall’ossessione della crescita. Se l’economia si imperniasse davvero sul patto tra i produttori, l’esigenza di una crescita a tutti i costi verrebbe meno. La crescita serve, in un sistema di equilibrio dinamico, a pagare la rendita: è l’esistenza della rendita che rende obbligatoria una crescita costantemente spinta verso livelli sempre più elevati o comunque sostenuti. Ma io non riesco a chiamare crescita quello che è successo negli ultimi trent’anni: un periodo alla fine del quale siamo tutti pieni di debiti o di crediti inesigibili. Insomma, c’è crescita e crescita.
È favorevole, quindi, all’argomento di Latouche circa la decrescita felice?
Non riesco a entusiasmarmi per la decrescita felice. La decrescita non è per nulla felice – si chiama depressione e ci siamo già. La questione è in realtà posta in termini errati: non si tratta di garantire a tutti i costi né la crescita né il suo contrario, ma di fare sì che il sistema produttivo produca con misura una ricchezza reale. Per fare questo, deve decrescere innanzitutto la possibilità istituzionale di accumulare denaro. O, se si vuole, deve crescere la possibilità del denaro di fungere da lubrificante del sistema e non da agente di freno e da strumento di ricatto da parte di coloro che il denaro lo possiedono e lo possono tenere indefinitamente fuori dalla circolazione, richiedendo una rendita per reimmetterlo nei circuiti produttivi.
Dal suo discorso, sembra che i produttori abbiano poco o nulla a che fare con la finanza, come se afferissero a un piano del tutto differente all’interno del sistema economico.
Non è così. Diciamolo chiaramente: non c’è vita economica senza debito, e dunque senza credito e finanza. Ma proprio per questo si tratta di non approfondire oltre misura un debito che c’è e che grava sulle spalle di ogni operatore economico degno di questo nome, cioè il fatto che prima di guadagnare devi spendere: energie, risorse, denaro, intelligenza, tempo. Il bilancio di un qualsiasi operatore economico è caratterizzato proprio dal fatto che prima si spende e poi si guadagna. Il problema dell’operatore finanziario è invece che il suo diritto a guadagnare viene statuito prima che ci sia qualche cosa da spartire.
In che senso, scusi?
Keynes insiste sul fatto che il tasso di interesse non è il prezzo di una merce ma il premio per la liquidità. La parola “premio” viene dal latino e ha a che fare col diritto di guerra: il praemium è quella parte di bottino che il comandante si porta via prima degli altri. Ecco cosa pretende la rendita: prelevare una ricchezza prima ancora che sia stata prodotta e prima che si sappia la misura in cui è stata prodotta. Questo è il tasso di interesse: qualcosa di ben diverso dal profitto, che invece è un reddito residuale, non deciso in anticipo, tant’è vero che può essere negativo, laddove invece un tasso di interesse negativo facciamo fatica a immaginarlo. Per sua natura la rendita non è mai negativa.
E questo cambierebbe in un sistema che organizzi alternativamente i rapporti tra finanza e produttori?
Certo, poiché in un sistema di compensazione il credito è concesso senza che vi sia accumulazione di moneta. Questo significa che questa moneta non dev’essere remunerata da una rendita, cioè che il credito non prevede remunerazione. Il vantaggio è chiaro: se io rinuncio a essere un creditore che si fa pagare per aver accumulato, quando sono debitore certo non mi si chiederà di pagare una rendita. In questo senso, mentre i profitti e il lavoro afferiscono all’economia di mercato, la rendita è il prodotto di un sistema economico più propriamente capitalistico.
C’è quindi una differenza tra economia di mercato e capitalismo?
In fondo non è così difficile distinguere il capitalismo dall’economia di mercato: il capitalismo lo conosciamo, mentre l’economia di mercato crediamo di conoscerla. In un’economia di mercato sta il fatto che le decisioni di produzione e di consumo sono decentrate, ma con quale limite? Con il limite che si tratti di decisioni che hanno a che fare con beni, con merci, mentre ciò che non è merce non ha mercato. La limitazione sta dunque nel fatto che la moneta non è una merce e, in un’economia di mercato, il mercato finanziario non ha senso economico di esistere. Si tratta dunque di fare fino in fondo questa ipotesi, e vedere dove ci porta. Fino a oggi abbiamo fatto l’ipotesi opposta, ossia che la moneta sia una merce e, sulla scorta di questa ipotesi, sono stati costruiti i mercati finanziari, che ci hanno portati alla situazione in cui le crisi sono divenute un concomitante necessario e inevitabile del funzionamento dei mercati. Se, contro le seduzioni di un’economia pianificata, vogliamo mantenere quell’elemento di libertà che ci piace nell’economia di mercato, dobbiamo fare a meno dell’illusione che la moneta sia una merce: il toglimento del tratto di merce alla moneta è una condizione necessaria per il mantenimento di lungo periodo dell’economia di mercato. La vera alternativa, dunque, è riconoscere alla finanza il fatto che non è obbligatorio che prenda la forma di un mercato e che, quando non prende la forma di un mercato, prende la forma di una relazione cooperativa. E che questa relazione cooperativa esige un regime di pubblicità ma non un controllo statale.
È quanto state cercando di fare a Nantes?
Nantes secondo me è l’espressione concreta di tutte le condizioni di cambiamento che abbiamo discusso: a) istituzioni nuove, b) capacità delle autorità politiche di favorire una creazione istituzionale e non controllano fino in fondo e c) disponibilità alla cooperazione. A Nantes abbiamo trovato una combinazione tra una comunità in cui la parola “collaborazione” non è un insulto, un’amministrazione pubblica che non si è messa in testa di lasciar fare qualsiasi cosa alla società civile ma nemmeno di imporle le sue decisioni, e una società civile memore del fatto che quel territorio è quello che è proprio grazie alla sua tradizione mutualistica e cooperativa. Ciò fa ben sperare per l’Italia, dove la tradizione del mutualismo cattolico, socialista e anche liberale (inteso nel senso proprio, e non neoliberista, del termine) ha creato una ricchezza in termini di capitale sociale che non siamo ancora riusciti a dissipare completamente.
Come si riforma, dunque, il sistema finanziario?
La riforma della finanza a partire dal livello locale deve poter poggiare su uno spirito spontaneo di innovazione istituzionale, che va salvaguardato. La riforma della finanza si fa se si coopera. Non la si può imporre, laddove invece la globalizzazione si è negli ultimi trent’anni violentemente autoimposta. La questione oggi non è quella di gestire questo sistema così com’è, e la competizione politica non dovrebbe vertere su chi sia in grado di gestirlo meglio. Il sistema capitalistico attuale non è l’ultima spiaggia di un processo economico di tipo evolutivo. Non è che una forma, e tutto sommato una variante malriuscita dell’economia di mercato. La questione è, allora, come si possa passare dal capitalismo all’economia di mercato: ecco la sfida vitale che una rinnovata economia politica deve porsi oggi, nel tentativo di rigenerare il nostro rapporto con l’economico e con il suo sapere.
(ha collaborato Alessio Mazzucco)