A Genova il grigio Doria batte partiti e giornali

A Genova il grigio Doria batte partiti e giornali

GENOVA – Non ce l’ha fatta a superare l’asticella del 50%. Marco Doria si è fermato poco sotto il 49%, un grande successo che rinvia la festa al ballottaggio. A uscire sconfitti dalle elezioni sono i partiti, nessuno escluso. Nella civile Genova, che dal dopoguerra vanta il record italiano di vendita dei giornali, sono andati a votare 55 aventi diritto su cento, poco più di un genovese su due. E la maggioranza dei voti espressi si è concentrata su candidati autonomi dai partiti. Non solo Paolo Putti, il candidato del Movimento 5 stelle, che ha sfiorato (con il 13,9%) un secondo posto che gli avrebbe consentito il ballottaggio. Anche Doria ha più volte preso le distanza dalle organizzazioni politiche ed Enrico Musso, il candidato centrista che parteciperà al ballottaggio (14,7%), si è presentato con una lista civica.

A conti fatti, quando il nuovo consiglio comunale si riunirà, è probabile che tra gli eletti i rappresentanti dei partiti saranno minoranza. Niente di cui dolersi con i tempi che corrono, ma certo un ulteriore elemento di instabilità del sistema. Il fatto che gli organi rappresentativi vengano in gran parte eletti al di fuori della mediazione dei partiti rappresenta una novità assoluta, il punto finale di una crisi che rischia di marcire. Il Pd, l’unico partito a tenere, non supera il 25%: tenendo conto del basso numero di votanti, significa che rappresenta 13 genovesi su cento. Il Pdl (con il candidato Vinai che ha toccato il 12,6%) poco più di sei.

Non è solo la politica tradizionale ad avere perso. Anche la stampa e i sondaggisti hanno mostrato un’evidente incapacità a comprendere i fenomeni in corso. È probabile che la candidatura di Marco Doria, destinato a diventare il sindaco di Genova, abbia posto un freno a un’ulteriore dilagare dell’astensione e del voto di protesta. E la storia della sua ascesa potrebbe essere un caso di studio sulla crisi della politica italiana.
Quattro mesi fa non lo conosceva nessuno. Era un professore universitario, uno tra i tanti, con alle spalle un padre ingombrante, il marchese Giorgio Doria, mito di una generazione di comunisti. La sua candidatura alle primarie viene inventata a tavolino da un gruppo di intellettuali di sinistra che annusano il clima della città e cercano di trarre qualche insegnamento dalla vittoria di Giuliano Pisapia a Milano.

Quando si presenta alle primarie, Doria non ha programma. Lascia che le due contendenti del Pd (l’ex sindaco Marta Vincenzi e la deputata Pd Roberta Pinotti) si scannino in un cicaleccio di sterili battute che non piace a gran parte dell’elettorato di sinistra. I giornali lo ignorano, i vertici del Pd lo snobbano: dove crede di andare quello lì? Quando stravince le primarie cambia tutto. I giornali locali e i sondaggisti si rendono conto di non avere capito niente. Il Pd si sveglia dall’incubo e cerca di rimettere insieme i pezzi. Claudio Burlando, che regna sul partito come un buon patriarca e sulla Regione come un abile democristiano, lo appoggia senza remore: «È l’uomo giusto», dice. Il partito si adegua come un sol uomo.

Un angolo del centro di Genova

A quel punto gli analisti si chiedono come abbia fatto Doria a vincere senza programma e senza giornali. Gli uomini a lui vicini spiegano che ha usato una tecnica vecchia come la politica: ha consumato le suole delle scarpe organizzando centinaia di incontri locali per contattare di persona migliaia di genovesi. A dire il vero molte delle persone che lo incontrano per la prima volta sono perplesse. Doria non buca lo schermo. È introverso, ha un sorriso timido, è tutt’altro che un oratore carismatico. Si presenta agli incontri pubblici con un taccuino su cui prende appunti. Sostiene che un sindaco non può sapere tutto, ma deve circondarsi di buoni collaboratori. Il contrario della Vincenzi, che ha un’opinione su tutto e non vede l’ora di manifestarla. Forse i genovesi non ne possono più delle esternazioni dell’ex sindaco. Forse amano il serio e appassionato grigiore di Doria, la sua strenua riservatezza che risuona con le antiche tradizioni della città. Rapidamente la candidatura prende forma. All’inizio, non avendo programma, non ha neanche contenuti. Ovunque lancia messaggi di metodo usando parole ecumeniche: confronto, presenza, vicinanza, partecipazione.

Forse il suo segreto è semplice: snobbare i vecchi canali di comunicazione (giornali e partiti) e creare nuove reti di contatti. Gira instancabilmente la città, salta da un incontro all’altro. Nel clima dominante dell’antipolitica il suo approccio sfonda nell’ampia area degli scettici della sinistra radicale, dei comitati antiqualcosa, degli anziani orfani del sessantotto, dei cattolici progressisti. Si circonda di ex sindacalisti Fiom: Walter Fabiocchi (oggi segretario dei pensionati Cgil), Mauro Passalacqua (che diventa il coordinatore dei comitati pro Doria), Corrado Cavanna (oggi segretario generale della Cgil Trasporti). Molti obiettano che non è il massimo dell’innovazione, altri rispondono che è un vecchio modo per prendere il massimo dei voti. Comunque, è tutta gente per bene.

Rifiuta i confronti diretti in tv. Molti lo accusano di essere generico, persino ambiguo sui grandi temi delle infrastrutture, considerati cruciali per il futuro della città, come la Gronda e il Terzo valico. Ma il suo metodo (confronto, partecipazione…) fa scattare una mobilitazione di base che in città non si vede da molto tempo. I comitati pro-Doria si moltiplicano e una società civile sonnolenta si mobilita in suo favore, vecchi militanti arrugginiti e giovani impegnati si organizzano e si ritrovano a dare volantini per le strade. I vertici del Pd fanno di tutto per mobilitare la propria base in favore di Doria, anche per riappropriarsi della sua candidatura. Lui partecipa volentieri alle riunioni ma ripete senza sosta che sarà un sindaco autonomo dai partiti. (E d’altra parte non tutti gli elettori di sinistra lo hanno votato: circa il 2% di quelli che hanno messo la croce sulle liste che hanno sostenuto Doria hanno scelto un altro candidato, probabilmente Enrico Musso.)

Per quanto riguarda la stampa, Doria fa il possibile per costruire pessimi rapporti con i giornali. Per i cronisti contattarlo è un incubo. Quelli di Repubblica impiegano una settimana per convincerlo a registrare un appello contro l’astensionismo e il voto sprecato. Lui sembra diffidente, poi accetta. Qualche settimana fa i giornalisti dell’Espresso gli chiedono le sue foto d’infanzia, quelle con il padre, scattate nelle magioni nobiliari della famiglia. Lui risponde picche: vade retro, si tratta della sua vita privata. Il giorno delle elezioni rifiuta di farsi fotografare con la scheda in mano. Vita privata anche quella. Qualche giorno prima aveva fatto una scenata a un fotografo del Secolo XIX che aveva scattato una foto a sua moglie per strada. Privacy, prego.

Per certi versi la vicenda di Doria ricorda quella di Adriano Sansa, nel 1993. Anche allora infuriava l’antipolitica. Mani Pulite era sugli allori e il sindaco di Genova, Claudio Burlando, era finito (ingiustamente) in carcere. Per venirne fuori i dirigenti del Pds candidarono un giudice, il pretore d’assalto Adriano Sansa, uomo onesto e rigoroso, una garanzia in un momento in cui fioccavano gli avvisi di garanzia ai politici di professione. Quattro anni dopo Sansa non fu ricandidato. Era troppo autonomo dai partiti e inoltre – si disse allora – non era granché come comunicatore. I due si assomigliano. Ma è difficile immaginare che Doria faccia la stessa fine.

Lo schiaffo al sistema dei partiti è avvenuto in una giornata cupa, con la città sotto choc per l’attentato a Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Chi ha sparato sul manager genovese, mentre usciva di casa per andare al lavoro, seguendo un copione che ci riporta dritto agli anni Settanta, voleva rubare la scena ai risultati elettorali che occupano i siti web, gli schermi televisivi e le prime pagine dei giornali. Nessuno sa chi sia stato a esplodere quei colpi, ma chi conosce la logica del radicalismo violento, che in Italia non si è mai estinto, sa che questo è il momento giusto per riprendere l’attività: il momento della crisi economica più dura del dopoguerra, con i partiti allo sfascio che solo due italiani su cento ritengono credibili.
 

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