L’orrore per l’eccidio di Hula ha acceso una luce nuova sulla tragedia siriana. A livello mondiale cresce l’indignazione e da più parti si levano gli appelli per fermare immediatamente le atrocità. Mentre Kofi Annan, inviato speciale delle Nazioni Unite a Damasco, si dichiara “inorridito” dalla strage, il presidente del Consiglio nazionale siriano Burnhan Ghalioun invoca “un intervento militare mirato contro i gangli strategici del regime di Bashar al-Assad”, e il Capo di Stato maggiore del Pentagono Martin Dempsey spiega che il Dipartimento alla difesa Usa “ha messo a punto varie opzioni militari, nel caso si rendessero necessarie”. Un’ipotesi che appare finalizzata ad accrescere la pressione politica internazionale su Damasco, in vista dell’attuazione del piano elaborato da Barack Obama per l’esilio di Assad e per una transizione pacifica e condivisa alla guida del potere.
Ma siamo certi che i crimini contro l’umanità perpetrati da oltre un anno in Siria siano opera esclusiva di un regime comunque responsabile di una feroce e sanguinosa repressione, autore di bombardamenti e di lunghi assedi portati avanti con carri armati, lancia-missili e artiglieria pesante? Le accuse rivolte dal regime siriano contro “le violenze pianificate e orchestrate dall’alleanza fra ribelli e gruppi terroristici islamisti appoggiati da Al-Quaeda con la complicità di Arabia Saudita e Turchia” contengono elementi di verità o appartengono al repertorio propagandistico di un’autocrazia vacillante?
A ragionare su tali interrogativi e sui dubbi sollevati da esperti di geopolitica e studiosi di strategie militari è Emma Bonino, vicepresidente del Senato e storica leader dei Radicali, da sempre in difesa dei diritti umani e della democrazia politica, nonché fautrice appassionata delle ragioni dell’interventismo democratico e del principio dell’ingerenza umanitaria.
La responsabilità per i crimini contro l’umanità e per la strage perpetrata a Hula possono essere attribuite esclusivamente al regime di Assad o le forze dei ribelli e degli oppositori sono coinvolte nelle atrocità?
Non ne ho idea, e constato che nessuno è in grado di imputare o distribuire con chiarezza e senza equivoci la colpa per i massacri. I reportage che da oltre un anno parlano degli eccidi compiuti in Siria sono estremamente variegati e di diversa origine. Alcuni si sono rivelati falsi, altri sono stati manipolati e orientati per precise finalità politiche. Ragione per cui ritengo doveroso che tutte le parti coinvolte nel conflitto offrano almeno la verità che conoscono e di cui sono responsabili.
Lo scenario siriano presenta analogie con la guerra nella ex Jugoslavia e in Bosnia, dove il ruolo degli aggressori e degli aggrediti era nettamente definito e pienamente comprensibile?
Ritengo che le due realtà siano profondamente differenti. Conosco pochissimo la Siria, ma considero il quadro politico e militare del paese mediorientale assai più complesso e intricato. A differenza di quanto ho potuto verificare in prima persona durante l’assedio di Sarajevo o nei giorni dei massacri di Sebrenica e di Tepa, riscontro una più marcata e forte interferenza dei clan. Esattamente come nel corso della guerra in Libia.
Quali iniziative è necessario intraprendere allora per fermare la spirale delle atrocità?
Abbiamo il dovere di ripetere l’operazione già compiuta nei confronti di Slobodan Milosevic e dell’ex dittatore della Liberia, Charles Taylor. I quali vennero accusati dai tribunali ad hoc sulla ex Jugoslavia e sulla Sierra Leone per rispondere dei crimini di guerra e contro l’umanità sui quali avevamo raccolto le testimonianze e gli elementi di prova. È indispensabile ora attivarci per disegnare una “mappa” dettagliata delle prove dei massacri perpetrati in Siria, con lo scopo di far giudicare i loro responsabili dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Per condurre in porto questa cruciale iniziativa abbiamo però bisogno del più ampio e convinto appoggio politico e finanziario, della più elevata professionalità degli investigatori, e di una solida protezione dei testimoni.
Il presidente del Consiglio nazionale siriano, che riunisce gli oppositori del regime di Assad, invoca il ricorso alla “forza mirata” per porre fine alla repressione portata avanti dalle truppe di Damasco. E il Pentagono sembra avere approntato piani di azione armata “in caso di necessità”.
Capisco perfettamente il dolore e lo sdegno che anima la richiesta di Ghalioun, e la vergogna per l’impotenza che la comunità internazionale ha dimostrato nell’affrontare la crisi siriana. Ma sarei assai cauta e attenta ad aprire un ulteriore fronte militare, dai contorni nebulosi e incerti, portatore di rischi difficilmente prevedibili. Non possiamo considerarci ogni volta come i “signori del mondo”, e dobbiamo riflettere sull’esperienza fallimentare dell’intervento in Iraq, così come sull’iniziativa armata condotta in Libia che ha provocato la conseguenza non intenzionale della penetrazione delle truppe di Tripoli nel Nord del Mali, oggi a rischio di una sanguinosa guerra civile. Al mio amico Bernard-Henry Levy, che esorta François Hollande a ripetere in Siria l’azione compiuta in Libia da Nicolas Sarkozy, in nome del diritto-dovere di ingerenza umanitaria a me caro, vorrei ricordare che una simile decisione rischierebbe di aggravare una realtà già tragica.
La comunità internazionale e le Nazioni Unite sono però paralizzate dallo stallo e dai veti di Russia e Cina.
È vero. Anche per questo motivo ogni strategia politica deve partire dal presupposto che i dittatori e i regimi liberticidi non sono e non devono essere nostri amici. L’espulsione degli ambasciatori di Damasco dalle principali capitali europee è senz’altro un passo nella giusta direzione. Quindi è necessario affrontare e vincere le resistenze geopolitiche di Mosca, che continua a sostenere Damasco e blocca ogni risoluzione incisiva al Consiglio si sicurezza dell’Onu. Attraverso significative pressioni sulla Russia potremo riuscire a isolare progressivamente Assad, e convincerlo a considerare l’ipotesi di abbandonare il potere e di scegliere l’esilio. In tal modo, il progetto concepito e lanciato da Barack Obama di una uscita di scena condivisa e pacifica del tiranno e della sua famiglia, e di una transizione politica morbida e graduale attraverso un governo di unità nazionale, potrà prendere corpo e funzionare. Si tratta dello stesso piano che noi proponemmo nel 2003 nei confronti di Saddam Hussein per evitare la guerra e promuovere il passaggio indolore alla democrazia in Iraq. Piano che il raìs era arrivato ad accettare ma che fu neutralizzato dalla ferrea volontà di George W. Bush e di Tony Blair di scatenare l’iniziativa militare entro il 20 marzo.