Quando si parla di giustizia-spettacolo bisogna anche guardarsi indietro, per esempio a quel 23 marzo 1980, quando scattò l’operazione che fece emergere il primo scandalo del calcio-scommesse, al tempo ribattezzato “toto nero2” (oggi forse bisognerebbe spiegare ai più giovani cos’era il Totocalcio).
La Guardia di finanza avrebbe potuto arrestare presidenti e giocatori alle sei del mattino – come di solito accade – nel silenzioso chiarore aurorale. Invece no: domenica pomeriggio, negli stadi, con le telecamere di “90° minuto” (altro compianto defunto) che riprendono in diretta l’arrivo della camionette delle forze dell’ordine. Finiscono in manette una decina di giocatori e un presidente (quello del Milan, la squadra pagherà l’anno successivo con la retrocessione in B, la prima della sua storia), due li cercano ancora in serata, ventuno le persone coinvolte, tra cui un nome destinato a brillare per sempre nel firmamento del calcio italiano: Paolo Rossi (si beccherà tre anni di squalifica). I giocatori più illustri a finire con i ferri ai polsi sono il milanista Enrico Albertosi (già portiere della Nazionale arrivata seconda ai mondiali di Messico 1970) e i laziali Bruno Giordano, Lionello Manfredonia e Giuseppe Wilson.
Così “Stampa sera” di lunedì 24 marzo ricostruisce quanto accaduto a Milano: «L’arresto simultaneo del presidente del Milano, Felice Colombo, e dei giocatori Ricky Albertosi e Giorgio Morini, è avvenuto alle 17. A quell’ora, stranamente, il cancello che immette negli spogliatoi era bloccato. Davanti, a impedire l’accesso, due brigadieri della Guardia di finanza nonché un imponente spiegamento di carabinieri in assetto di combattimento, casco, fucili, come se fuori li dovesse aspettare la domenicale bagarre. Poi, improvvisamente, si è aperto un varco nel quale si è infilato un capitano dei carabinieri seguito da alcuni militi in borghese e da Ricky Albertosi. Lo avevano bloccato in tribuna d’onore nel momento in cui il portiere stava per allontanarsi, invitandolo a seguirli nello spogliatoio. Al di là del portone di ferro, stazionavano un’Alfetta e due “128” blu nelle quali sono stati fatti salire Colombo, Albertosi e Morini. Le auto hanno seguito il percorso interno, quello solitamente riservato al taxi che trasporta l’arbitro fuori dallo stadio. Quando i due brigadieri hanno dato via libera ai giornalisti, ormai non c’era più traccia dell’episodio».
Un giocatore, Stefano Pellegrini, dell’Avellino (si prenderà sei anni di squalifica) viene arrestato subito dopo la sostituzione, a otto minuti dal termine della partita. Gli agenti della polizia tributaria lo seguono negli spogliatoi perché temono che se la fili, non viene specificato se lo ammanettino prima o dopo la doccia. La Lazio gioca a Pescara; «due agenti in borghese si sono presentati in tribuna d’onore dove c’era Manfredonia. Il giocatore, squalificato, non poteva giocare. Gli hanno chiesto le generalità e lo hanno invitato a uscire. È stato ammanettato e caricato sulla grossa macchina targata Roma che è partita a tutto gas». Gli altri se i vanno a prendere negli spogliatoi. «Rimanevano a disposizione Wilson, Giordano e Cacciatori», scrive “Stampa Sera”, «A tutti e tre il maggiore Panaccione comunicava l’ordine di cattura. Wilson scoppiava in pianto, gli altri tre rimanevano impassibili, anche se evidentemente turbati. Pare che il reato contestato sia truffa aggravata. Ancora in divisa della società Cacciatori, Giordano, Wilson lasciavano gli spogliatoi scortati da guardie in borghese. Poco prima delle 18 uscivano da una porta laterale dove attendevano col motore acceso due Alfette. Wilson saliva nella prima, Cacciatori e Giordano erano spinti nella seconda». Scrive Giuseppe Zaccaria a pagina 2 di “Stampa Sera”: «Cellulari all’uscita degli spogliatoi, auto della polizia anche sul campo, giocatori ancora sotto la doccia costretti a rivestirsi in fretta per seguire, stralunati, degli uomini severi in abiti civili che si erano appena qualificati come agenti della Finanza: il calcio, ieri, l’hanno ammazzato così». Al di là del fatto che “cellulare” nel 1980 non significava telefono portatile, è da sottolineare che non siano stati ammazzati né il calcio né l’abitudine a truccare le partite.
Quel 23 marzo 1980 l’Italia è sotto shock: nessuno si immaginava uno scandalo di tale portata. Tutto era nato a inizio mese dalla denuncia di un grossista ortofrutticolo che, attraverso il proprietario di un ristorante suo cliente, era entrato in contatto con alcuni giocatori della Lazio che lo avevano invitato a scommettere. Ma in realtà le cose non vanno come sarebbero dovute andare, il commerciante ci rimette un mucchio di soldi – si dice alcune centinaia di milioni – e spiattella tutto. “La Stampa” del 25 marzo (nel frattempo gli arresti sono saliti a tredici e ce n’è ancora uno da effettuare) ospita un commento di Luigi Firpo che contesta le manette facili: «Stiamo affondando nel fango, ma almeno non ci dicano che fango non è, ma dolce panna montata. E fin che gli onesti restano, come tuttora sono, in larga maggioranza, siano loro a far muro e a pretendere che la bilancia della Giustizia non trabocchi e che rimangano affilati i tagli della sua spada». Bene, tutto questo sfarfallio di luci blu, questo stridore di sirene spiegate, questo tintinnar di manette, a cosa porta? A nulla. Il procedimento penale, alla fine, assolverà tutti: non c’è reato.
Truccare le partite di calcio sarà pure una schifezza, ma non c’è alcuna legge che impedisca di farlo. Diverso, invece, l’esito della giustizia sportiva: vengono irrogate pene esemplari perché mai più in futuro a nessuno venga in mente di scommettere. Il Milan e la Lazio finiscono in B; Avellino, Bologna e Perugia vengono penalizzate di cinque punti nel campionato successivo. Il presidente del Milano, Colombo, viene radiato dalla Federcalcio; ai giocatori toccano squalifiche varie, il massimo – sei anni – come detto, a Stefano Pellegrini. Varie assoluzioni, tra cui tutti gli juventini coinvolti, cosa che farà assai discutere.