Investito dall’esplosione di un razzo che ha centrato la garitta di un campo di addestramento della polizia afgana. È morto così il 30enne carabiniere scelto Manuele Braj: cinquantunesima vittima dall’inizio della missione italiana in Afghanistan. Feriti ma non in pericolo di vita, altri due militari che erano impegnati con il giovane leccese in un’attività di formazione degli agenti locali che vede i carabinieri in prima linea. Come confermato sia dai vertici italiani del comando della regione ovest a Herat, che da quelli dello Stato Maggiore della Difesa, si è trattato di un attentato. Un’azione dall’esterno che aveva chiaramente quella struttura come obiettivo. Cosa che non stupisce certo chi conosce e vive l’attuale situazione di incertezza che domina lo scenario afgano. Per questo, in particolare nelle caserme e nelle basi di addestramento della polizia afgana, dove lavorano attivamente i carabinieri e le forze armate, la tensione è altissima. Le misure di sicurezza, che normalmente vedono scontrarsi le concezioni “occidentali” con il pressappochismo e il fatalismo da “guerra eterna” afgani, sono stringenti. I militari sono consapevoli dei pericoli e non abbassano mai la guardia. Le informazioni ufficiali, i report dell’intelligence e la statistica, indicano chiaramente in questi obiettivi, i più interessanti per una guerriglia senza attori protagonisti, che tra signori della guerra, gruppi di criminali comuni e nostalgici dei talebani, le autorità internazionali e locali si limitano a definire ‘insurgens’.
Giunti alla quarta fase della ‘road map’ di Isaf, quella della transizione dei poteri, le forze armate internazionali, con gli italiani nella Regione Ovest, si limitano a un supporto nelle azioni che da qualche mese vengono condotte e organizzate sul campo dalle forze armate e di polizia locali. Gli eserciti alleati assicurano la loro assistenza ed esperienza, sostenendo eventuali carenze militari sul campo, e garantendo la copertura dall’alto, essendo il nuovo esercito afgano particolarmente in deficit sulle forze aeronautiche. Grazie all’utilizzo dei droni poi, aerei senza pilota che vengono ‘guidati’ e gestiti esclusivamente nelle basi Isaf, spesso anche la vigilanza e gli eventuali allarmi, vengono dati dagli occidentali. Progressivamente ogni attività è stata ceduta agli afgani. Questo però solo al termine delle attività di addestramento dei militari e di formazione di quegli ufficiali e sottufficiali afgani che hanno iniziato ad addestrare da soli i propri soldati. Un’attività di ‘mentoring e advisoring’ che ha reso onore e grande considerazione alle forze armate italiane in tutti gli ambiti internazionali. E’ come ‘esercito di pace’ che si è raggiunta l’eccellenza. Cosa che sottolineano spesso gli stessi vertici delle forze armate locali che in ogni occasione ufficiali o incontro con la stampa, ci tengono a far arrivare un messaggio di ringraziamento in Italia.
Se il nuovo esercito afgano è affidato alle ‘cure’ dei militari, sono i carabinieri ad occuparsi della polizia. L’esperienza per le strade italiane che ciascuno ha, la conoscenza della polizia giudiziaria in patria e un addestramento di prim’ordine, fa della Seconda Brigata Mobile, impiegata nel teatro operativo in particolare, una punta di diamante dell’Arma. I reggimenti ‘Friuli Venezia Giulia’ dove era in servizio il carabiniere caduto ieri, e “Trentino Alto Adige”, dove operano i due militari rimasti feriti ad Adraskan, sono sufficienti a coprire tutto l’ambito dell’addestramento. Dall’ordine pubblico alla sicurezza in strada, investigazioni comprese. E’ dalla brigata con sede a Livorno che vengono anche fuori i paracadutisti del ‘Tuscania’, specializzati, tra l’altro, anche nelle scorte all’estero dei diplomatici italiani e impiegati in attività operative in Afganistan. Unendo competenza e grande umanità i carabinieri sono molto stimati dai colleghi afgani. Un modo sempre molto comprensivo e rispettoso delle abitudini e delle tradizioni locali che viene apprezzato in ogni luogo.
Con il passaggio di consegne e le forze occidentali sempre più defilate, sono le nuove istituzioni afgane pronte a conquistare l’autorità e il controllo del territorio, a finire nel mirino degli attentatori terroristi. I palazzi governativi, con forze armate e polizia, diventano simboli di una propaganda del terrore molto efficace. Dal punto di vista militare i terroristi si siano ritirati al punto di avere ora come arma prescelta il lancio di colpi da mortaio da lunga distanza, come accaduto ieri ad Adraskan. Azioni cui vengono affiancate spesso aggressioni contro le popolazioni civili che non vogliono sottomettersi al criminale. E se il nuovo agire degli ‘insurgens’ insieme a molte altre informazioni e sensazioni, viene celato il più possibile negli ambienti ufficiali di polizia e ‘nuovo’ esercito afgano, creano allarme ai vertici Isaf. I locali invece dal canto solo, più che per il fronte interno tendono a mostrarsi maggiormente preoccupati del fronte esterno. Del lavoro ai fianchi che viene fatto da Iran e Pakistan per destabilizzare l’area, favorire uno sbocco per la droga prodotta sotto l’egida dei criminali locali e per evitare un inserimento troppo evidente del nemico a stelle e strisce nel cuore dell’Asia.
In uno scenario così complesso e pericoloso, dagli equilibri tanto incerti, quanto tutti questi rischi siano reali adesso è reso evidente dal drammatico attentato di oggi. Quanto possano investire ancor più le nostre forze armate in futuro è presto detto. Con l’uscita degli eserciti della coalizione, in Afganistan, resterebbero solo i carabinieri del Police Speciality Training Team colpiti ieri. In caso di sollevazioni popolari, rivoluzioni dall’interno o aggressioni dall’esterno, i nostri militari sarebbero molto esposti. Se fino al ritiro del 2014 la situazione dovesse rimanere in bilico con sporadici attacchi riusciti, come quello che ieri ha colpito il carabiniere Manuele Braj, chi sarà però in grado di assumersi le responsabilità del peggiore dei futuri scenari possibili?