Shanghai. Una donna che giace addormentata vicino ad un feto di sette mesi abortito e ancora coperto di sangue. Immagini forti, che stanno facendo il giro del mondo, e che hanno aperto dibattiti e polemiche nella rete in Cina.
Feng Jiamei, una donna della provincia cinese dello Shaanxi, è stata costretta ad abortire la bimba che aspettava mentre era ormai giunta al settimo mese di gravidanza. Secondo le organizzazioni per i diritti umani che hanno fatto circolare la notizia, la donna sarebbe stata picchiata e costretta all’infanticidio perché non era in grado di pagare la multa comminata alle coppie che, violando la legge, mettono al mondo un secondo figlio. Il conto sarebbe stato di 40.000 yuan, oltre 4500 euro.
I funzionari locali hanno negato di essere coinvolti nell’episodio, ma una prima indagine della Commissione per la pianificazione familiare ha già confermato l’aborto forzato. Il marito di Feng Jiamei, Deng Jiyuan, ha raccontato ad alcuni gruppi che si battono per i diritti umani che sua moglie è stata presa dalle autorità lo scorso due giugno e costretta ad abortire. Il quattro, alle tre del mattino, dopo due giorni di agonia, la bambina è nata, morendo subito dopo a causa della mancanza di cure.
Gli aborti forzati non rappresentano una novità in Cina. Ma questo caso, anche a seguito delle immagini apparse, ha suscitato un’indignazione senza precedenti tra i cinesi che si sfogano on-line, dove c’è chi paragona l’accaduto ai crimini ”dei diavoli giapponesi e dei nazisti”.
La politica del figlio unico, fortemente voluta dal governo alla fine degli anni settanta per tentare di contenere una crescita demografica preoccupante e altrimenti ingestibile, comincia, almeno nell’opinione pubblica, a dare qualche segnale di cedimento. “Ogni giorno le donne continuano a subire violenze in Cina – denuncia Chai Ling del gruppo All Girls Allowed – a dimostrazione che la legge del figlio unico provoca continui soprusi e violenze’’.
In base alla normativa attuale, le coppie in Cina sono autorizzate ad avere un solo figlio. Se contravvengono alla norma devono pagare una multa, spesso molto salata. Poche le eccezioni consentite: una coppia può avere un secondo figlio se entrambi i coniugi sono figli unici o se il loro primo figlio è affetto da una malattia non ereditaria. Nella Cina rurale, alle coppie che hanno avuto come primo figlio una femmina è consentito tentare di fare un maschio per assicurarsi la forza-lavoro necessaria nei campi.
La legge del figlio unico ha inevitabilmente determinato l’aumento degli aborti. Secondo le statistiche il picco massimo lo si è raggiunto nel 1983 con un totale di 14,37 milioni di aborti in un anno, cifra scesa poi a una media di 13 milioni l’anno. Non è solo la politica del figlio unico, però, a causare gli aborti anche su donne in avanzato stato di gravidanza.
Tradizionalmente i cinesi – come altri popoli asiatici – per motivi di ordine sociale ed economico preferiscono avere figli maschi e, specie in passato, era assai frequente il fenomeno dell’aborto selettivo, e della soppressione dei feti di sesso femminile. La cosiddetta “sex ratio”, ovvero lo squilibrio tra il numero di uomini e quello di donne, è andata così crescendo in Cina dal 1980 ad oggi.
Studi della Commissione per la Popolazione e la Pianificazione familiari del 2010 mostrano che il rapporto tra i due sessi in Cina è di 130 maschi per 100 femmine (nei paesi industrializzati è in media di 100 maschi per 107 femmine). Secondo un’analisi condotta dall’Accademia cinese di Scienze sociali, se non si verificherà una inversione di tendenza, entro il 2020 ci saranno 24 milioni di maschi in più (appartenenti alla fascia d’età tra i 19 ai 45 anni) rispetto alle donne.
Le scappatoie per le donne cinesi, soprattutto quelle che hanno i soldi, sono tante. Se non si accetta di pagare la multa (che può arrivare fino a centinaia di migliaia di euro per i redditi più alti), c’è la possibilità di partorire all’estero, Stati Uniti ed Hong Kong fra le prime destinazioni, e dare così ai figli la carta di residenza del posto dove nascono, scomparendo per il governo cinese.
Alcune donne, grazie a medici compiacenti, fanno risultare gli aborti come terapeutici, invocando finte malattie per i figli se si scopre che sono femmine. Contro questa pratica si è schierato anche il Global Times, importante quotidiano cinese. E contro gli aborti forzati si è da sempre schierato Chen Guangcheng, l’attivista cieco che è stato al centro di un delicato contenzioso diplomatico tra Cina e Stati Uniti.
Nel 2005 Chen si recò a Pechino dove chiese aiuto ad un giovane avvocato per denunciare che nella provincia orientale dello Shandong, le autorità locali avevano costretto almeno 7.000 donne, alcune in avanzato stato di gravidanza, ad abortire per rispettare le quote imposte dal governo centrale nel controllo delle nascite. Per individuare le donne incinte, secondo le denunce di Chen e di altri attivisti democratici, migliaia di persone furono arrestate arbitrariamente e picchiate selvaggiamente. Almeno cinque di loro rimasero uccise.
I numeri delle denunce aumentarono, tanto che Chen arrivò a coordinare denunce di massa per oltre 100.000 casi. La commissione per la pianificazione delle nascite, a seguito di una inchiesta, gli diede ragione, ma le autorità cinesi lo arrestarono a settembre del 2005 e lo condannarono per aver danneggiato beni di proprietà privata e organizzato una manifestazione che ha disturbato il traffico, facendolo restare in prigione fino al 2010 e poi ai domiciliari.
Ora Chen Guangcheng si trova negli Stati Uniti, ma dopo l’aborto imposto a Feng Jiamei, altri potrebbero portare avanti la sua battaglia trovando un sostegno crescente nell’opinione pubblica cinese.