Liberissimi di sbagliarci, ma anche questa volta la “via giudiziaria” non porterà lontano. È molto probabile che, alla fine di un processo, difficilmente si riuscirà a provare che in cambio di quelle utilità (vacanze, viaggi in barca, una casa comprata a sconto da un amico del governatore, ecc) Daccò e gli altri hanno ricevuto appalti e commesse dalla Regione di Roberto Formigoni. Meglio ancora: non si riuscirà a provare che, senza le vacanze e tutto il resto, quelle stesse partite politico-economiche non sarebbero state vinte.
Non perderemo tempo a spiegare che la giustizia deve accertare gli eventuali illeciti, né specificheremo che comportamenti che si assumono illeciti, e che sono durati un decennio, improvvisamente passano al setaccio ora che un blocco politico e di potere conosce il declino di ogni cosa umana.
Il nodo da sciogliere, nella lunga e a tratti luminosissima parabola di Roberto Formigoni, resta però decisamente un altro, ed è tutto politico. Assumendo che non si arriverà a una piena prova contraria, e che quindi il reato non sarà certificato da una sentenza passata in giudicato, quale giudizio politico si può dare di questa vicenda e del contesto in cui si inserisce?
Usiamo le parole di Formigoni: “Di illegale non c’è nulla”. È il suo punto di vista, certo. Anche perché, se di illegale qualcosa ci fosse, si dovrebbe probabilmente andare ben oltre il perimetro del suo rapporto con Daccò e Simone, e indagare un intero sistema di potere e di relazioni consolidato da un ventennio (quasi) di potere politico lombardo. E il perimetro, inutile girarci attorno, è quello delle tantissime realtà di matrice ciellina che nell’alveo della regione e dei suoi fondi pubblici hanno lavorato. Spesso egregiamente, spesso in modo discutibile, ma certo con idee molto precise e rispettabili e con un obiettivo che – marxianamente – potremmo definire quello dell’egemonia.
Ai tanti che – lontano dai milioni della Clinica Maugeri e degli yacht di Daccò – in quel sistema si sono mossi, sono cresciuti professionalmente e lì hanno lavorato, verrà spontanea una domanda: ma l’amicizia, il legame che fa di noi una “comunione” può essere un reato? Può essere un reato condividere ideali e metterli in pratica (facendo affari, in alcuni casi, ma anche questo non è vietato), forti di una rete di relazioni sempre puntualmente votata, democraticamente, dai cittadini lombardi e spesso con proporzioni di plebiscito?
No, certo che non è un reato. Solo che, politicamente parlando, in Lombardia non avere in tasca il certificato di sana e robusta ciellinitudine era uno svantaggio conclamato. O meglio, averla era un chiaro vantaggio in un sistema di relazioni. Questa è una realtà che la Lombardia del potere, della politica e degli appalti ben conosce, e che – al di là di denunce rapsodiche e a volte apertamente ideologiche – non ha mai trovato un’opposizione politica e culturale degna di questo nome. Anche perché, nel mondo delle cooperative rosse (e a valle, del Pd), queste obiezioni sono spesso sembrate teoriche, a fronte di pragmatici accordi che riconoscessero ad altri poteri la loro porzione a tavola. Il resto, nel silenzio impotente di quel che fu la sinistra, lo ha fatto la debolezza di una classe dirigente incapace di capire il Nord, di metabolizzare il dato di fatto del berlusconismo, di elaborare una strategia minima per intercettare una regione che dello sviluppo economico aveva fatto la propria stella polare di successo.
Oggi, però, è il tempo di fermarsi. Tutti. Di ricordare che, finito il can can giudiziario che accompagnerà per qualche giorno Formigoni e indipendentemente dagli esiti del processo, è tempo di ripensare la politica. A chi si è opposto con armi spuntate a Formigoni è bene ricordare, ancora una volta, che il suo declino non è garanzia né di vittoria né di sana gestione del potere, che è poi l’obiettivo della democrazia. A chi ha votato Formigoni, persino ai suoi pretoriani, corre l’obbligo di una riflessione critica e approfondita. Ma davvero, di fronte a un sistema che ha confuso e mischiato amicizia e ideali, affari e potere politico, basta nascondersi dietro alle eventualità fragilità di un’accusa per non riconoscere che, al fondo di tutto, c’è un problema politico? Ma davvero, anche questa volta, non c’è spazio per un’autocritica pubblica che parli la lingua della laicità e, in definitiva, della democrazia?
Noi, garantisti per convinzione, assolviamo il sistema Formigoni da ogni pendenza penale. Lo facciamo perché preferiamo, da sempre, commentare le sentenze (se ci sono) e parlare di politica e del bene del paese. Già, ma con chi? Se ci siete, battete un colpo.