È un’Italia ampia ma sempre insufficiente a se stessa: un’unica grande chiesa, sempre troppo piccola, però, per avere la maggioranza delle coscienza. L’Italia di quelli che “a qualunque costo, il problema dell’Italia è Silvio”. Se lui ci facesse la grazia di non chiamare l’ennesimo, inutile, nichilista referendum sulla propria stanca immagine, anche di quell’Italia ci libereremmo: nel senso che obbligheremmo chi da due decenni si definisce pubblicamente in base a lui a ripensarsi. A dare qualcosa che non sia, anzitutto ed essenzialmente, una certificazione di distanza da lui. L’ultimo – per carità, altissimo – esempio lo abbiamo letto domenica su La Repubblica, nel consueto ampio editoriale di Eugenio Scalfari. Che non teme di scomodare perfino Luigi Einaudi, Antonio Gramsci e Danilo Dolci per mostrare una volta di più una bella biblioteca sguainata in faccia all’Italia di Daniela Santanchè.
In quel lungo scritto che non cerca riferimenti al presente né ritiene che serva capire, al fondo, la parabola del berlusconismo, c’è un tratto di ogni antiberlusconiano vero: un senso di irredimibile superiorità morale. Non semplicemente nei confronti di lui o di una Santanchè qualsiasi, ma di ogni cittadino italiano che una volta, su quel nome, la croce ce l’ha messa. Antiberlusconiani, in fondo, lo siamo stati in tanti: praticamente tutti quelli che non lo hanno mai votato e tanti anche tra quelli, prima di diventare “anti” o dopo esserlo stati, che a un certo punto quella croce l’hanno disegnata. Anche chi scrive si ricorda la sua personale versione dell’antiberlusconismo: antifascista, vagamente solidarista, fortemente improntata a retoriche etiche. Ma gli antiberlusconiani – appunto – sono stati un’unica grande chiesa, capace di contemplare tutti gli opposti fra di loro, a patto che altrettanto si opponessero a lui. E quindi, cattolici e laicisti, liberali classici e comunitaristi, idealisti di destra e trafficoni di sinistra (e viceversa). Tutti insieme.
Ma questo si sa, come si sa che ci sono diversi giornalisti e intellettuali che sull’esistenza e l’azione politica scandalosa di Silvio Berlusconi hanno costruito carriere, conti in banca e successo: e solo il cielo sa quanto sperano che lui torni presto, per ricalcare un copione che conoscono a mena dito sperando che, nel frattempo, anche il pubblico plaudente non sia calato troppo. Ma non è solo a questo antiberlusconismo di vertice che bisogna pensare. Ce n’è un altro, diffuso, genuino, che sta nello stesso Paese reale che (con eguale e contrario conformismo) per lui votò tante volte. È l’antiberlusconismo di chi fu anti-democristiano, di chi fu comunista e cattolico (talora entrambe le cose). È l’antiberlusconismo viscerale di chi, da qualche parte, ha sempre creduto che i padroncini e i piccoli imprenditori del Nord fossero in gran parte ladri, di poca fantasia e coraggio e di grande spregiudicatezza.
È l’antiberlusconismo di chi, in qualche misura, aveva dentro la convinzione che il successo economico e la ricchezza fossero segno naturale di disonestà, merito esclusivo dell’amicizia di Craxi e di nient’altro. Sono stati, questi anti-berlusconiani, i retori di una società civile con le mani pulite: anche perché, sia detto con pacatezza, di sporcarsele non avevano mai avuto voglia. È l’antiberlusconismo di chi ha giudicato come “macelleria sociale” ogni dibattito sul mercato del lavoro, senza accorgersi che intere generazioni di lavoratori senza-diritti finivano con il guardare a dei semplici salariati con 14esima come a una casta di privilegiati. Potremmo continuare a lungo, pensando a quante volte abbiamo votato candidati improbabili, forse spesso anche indegni, perché l’importante era far capire all’Indegno che non era più tempo per lui.
Guardando indietro, un po’ di autocritica non farebbe male, a tutti noi che non siamo mai stati “suoi”, perchè nell’incomprensione del fenomeno e nel montanelliano turarsi il naso abbiamo probabilmente e di molto allungato la sua vita politica. A monte, ormai è andata. Più importante e interessante, invece, è dedicarsi a un futuro che arriva. Un futuro che non ha bisogno di dividere l’Italia nell’artificiosa definizione di chi è stato con lui e di chi no, perchè è una definizione sovrastrutturale, evanescente, mediatica, che poco spiega del paese che siamo ormai oggi. Sarebbe bello definirsi, ad esempio, in base a quanto ciascuno di noi versa nel calderone di tutti, producendo reddito, e quanto invece da quel calderone riceve o riceverà. È una questione che divide le generazioni, i produttori dai parassiti, in parte non geometrica anche il Nord dal Sud.
Sarebbe bello, insomma, che chi ritiene (e siamo tra questi) che lui non ha risolto i problemi ma li ha incancreniti e aggravati, la piantasse di lamentarsi di lui e pensasse a cosa possiamo fare, tutti noi, in prima persona. Evitando di fare quelli che hanno la biblioteca più lunga e non sbagliano i congiuntivi: grazie, di lì ci siamo già passati, e abbiamo sperimentato che, alla fine, non è servito a rendere migliore il Paese, ma solo a giudicarlo con un distacco che – adesso che il futuro è incerto e tutto da scrivere – gli uomini di buona volontà non possono davvero permettersi.