Duemila anni fa, il 31 agosto, ad Anzio nasceva Caligola. Imperatore folle e depravato, Gaio Giulio Cesare Germanico – Caligola era il nomignolo che da bambino gli avevano affibbiato i legionari del padre perché calzava piccole calighe (i sandali dei soldati) – è nell’immaginario comune la quintessenza della sfrenatezza e dell’arbitrio del potere. È il princeps che fece senatore il suo cavallo. È il simbolo del male assoluto, pura cronaca nera.
E come simbolo è anche unità di misura di tutte le nefandezze dei politici moderni. Caligola, tanto per dire, per Gore Vidal era Bush junior. Ma Caligola, per la stampa inglese, è anche il Berlusconi delle cene eleganti ad Arcore. Il Berlusconi della Minetti al consiglio regionale o di Brancher a palazzo Chigi (e il paragone potrebbe continuare con Bossi e il Trota). Miserie domestiche che fanno però torto a Gaio Cesare.
Perché Caligola il mostro (il copyright è del maligno Svetonio) è qualcosa di più di un’orgetta serale o di un nitrito senatoriale di cavallo. Figlio di Germanico – avete presente Maximus nel Gladiatore? beh, il padre era come l’Ispanico: idolatrato dai legionari, amatissimo dal popolo di Roma – Caligola resta in un certo senso un enigma per gli storici. Anche per la povertà di fonti attendibili: in mancanza dei libri (persi) del grande Tacito, si può attingere solo dagli aneddoti gossippari di Svetonio e Cassio Dione. Una sfilza di orrori, crudeltà, perversioni. Ma sono voci partigiane, da farci la tara.
Il punto è sempre quello: la pazzia di Caligola. Squilibrato sanguinario o tiranno senza scrupoli? Magari ha pure ragione Luciano Canfora quando stronca le tesi da antipsichiatria di Aloys Winterling mettendo in guardia dai facili revisionismi, ma qualche dubbio dell’antichista tedesco fa presa. Leggere sub specie furoris è spesso scorciatoia comoda, ma non sempre istruttiva. C’è sadismo nei comportamenti di Caligola, e cinismo, e amoralità e tutta una vasta gamma di deviazioni (per noi) psicotiche, ma sono davvero sintomi di follia nei tempi crudi e violenti di inizio principato?
E le stramberie inspiegabili? Il cavallo senatore? I legionari a mollo in Normandia a raccogliere conchiglie? Il “matrimonio” con la sorella Drusilla? Forse c’è meno mistero di quanto si creda. Il cavallo Incitatus – in realtà le cronache raccontano di una designazione a console solo promessa ma non realizzata – è lo sfregio e il disprezzo verso una classe senatoria dalle velleità repubblicane e in odore di trame. La scampagnata marina è l’umiliazione di un esercito riottoso che contesta il progetto abborracciato di invadere la Britannia. Le nozze simil faraone, insieme ai sogni di deificazione in vita, inseguono le suggestioni delle monarchie ellenistiche. E allora, torti o ragioni a parte, c’è sì pazzia in Caligola, ma c’è anche metodo in quella pazzia. C’è il desiderio di imprimere torsioni dispotiche alla crisi del compromesso costituzionale augusteo.
In questo Canfora coglie il segno: dietro Caligola si agitano temi ben più impegnativi della follia. C’è lo scontro di poteri tra aristocrazia e principe, c’è l’attrazione-repulsione dei gruppi dirigenti verso i modelli “orientali”, c’è più in generale la morfogenesi della tirannide. Al di là di ogni giudizio, in Caligola – pugnalato a 29 anni da due pretoriani assoldati dai senatori – c’è insomma la tragica grandiosità dei tempi di interregno, quei tempi morbosi in cui (per dirla con Gramsci) il vecchio muore e il nuovo ancora non può nascere. Con buona pace degli epigoni nostrani.