Venezia. Che poi passano e uno si chiede: ma chi sono? Perché è vero che i fotografi impazzano e l’onda dei fans si anima al passaggio del divo in passerella, ma prima di loro e fra l’uno e l’altro c’è tutto un esercito di commendatori e consorti, coppie variamente cotonate e imbiondite e azzimate, che verrebbe quasi di farlo uno striscione: documenti, prego. Che poi, anche la passerella, se non fosse che le foto – eventualmente pure con qualche lifting di photoshop – glamourizzano tutto sopprimendo il contorno, in primis lo straniante sottofondo sonoro che miscela musica di spot, musica etnica, i suoni di tamburi dei dipendenti di Cinecittà venuti qui a protestare, e fermi all’altezza delle camionette dei carabinieri, beh insomma potrebbe anche essere l’inaugurazione di una concessionaria di lusso in un incasinato pomeriggio metropolitano. Qualche attore, a parte la canonica posa col profilo migliore, si ferma per qualche autografo o un saluto a favore di pubblico. E l’uno dopo l’altro, attori e commendatori, superate le raffiche di flash, il roteare di teleobiettivi lunghi come cannoni, le urla di gladiatori con le sembianze di ragazzine abbronzate, tutti loro sono inghiottiti dal Palazzo del Cinema per questa cerimonia inaugurale, baciati dall’ultimo sole estivo che saluta mare e laguna.
Il film della cerimonia è tosto: un thriller politico, The Reluctant Fundamentalist, per la regia dell’indiana Mira Nair. Film che vede come primo nome sullo schermo Tarak Ben Ammar (“Tarak Ben Ammar presents”) e uno pensa che in fondo non tutto è perduto per il vecchio nostro Cavaliere se il suo grande socio nordafricano mette il sigillo inaugurale su questa mostra numero 80.
All’ingresso della proiezione per la stampa, in mattinata, c’era una lunghissima fila a spirale di giornalisti incolonnati, sotto lo sguardo vigile per quanto passeggero del direttore Alberto Barbera, in completo nero con camicia bianca già dalla prima mattina (non per caso si dice che sia l’unico cinefilo a saper indossare lo smoking). Alla fine del film, un tiepido tiepido applauso. Eppure la pellicola è tutt’altro che brutta.
Sostanzialmente è il racconto di un giovane pachistano che sogna di essere lo Zidane della finanza (non per niente il poster del calciatore campeggia sulla parete di caso del protagonista): va in America per fare soldi a palate come analista finanziario (come l’algerino Zizou è diventato il campione della colonialista Francia). La carriera è promettente, brucia tutti i competitor. Poi però l’11 settembre determina in lui un cambio totale: abbandona la sua vita tutta amore (per una ricca artista newyorchese) e profitto in operazioni industriali internazionali e torna in patria, perché non vuol essere un giannizzero yankee, e in Pakistan entra pericolosamente in contatto con i fondamentalisti.
La sua storia si scontra con quella di un giornalista americano che lavora per i servizi segreti (onestamente, tutto un altro physique du rôle rispetto all’agente Betulla-Farina). Giusta tensione per un racconto dickensiano tra due città, Lahore e New York (con importante intermezzo a Istanbul), piani temporali continuamente intrecciati, recitazione di ottimo livello e tutto sommato molta meno durezza verso il capitalismo e i suoi assi di quanto in storie analoghe venga espresso da autori made in Usa.
A proposito di thriller, il guru ad honorem Jonathan Demme, colui che ha aperto una scuola con Il silenzio degli innocenti, al Lido conferma una traccia: a un certo punto i registi americani devono parlare di Napoli. Abel Ferrara sta girando sotto al Vesuvio, Turturro ha espresso la sua Passione per la musica napoletana, oggi Demme ha trovato la sua ispirazione in Enzo Avitabile. Onestamente è più a suo agio tra le strade di Philadelfia e i terrori di Hannibal Lecter che tra Marianella e Sant’Antonio Abate, pedinando il pur ottimo Avitabile. In ogni caso, si conferma l’appeal di Partenope, ugualmente internazionale e nazionale, con pericoli permanenti di escursioni nel campo minato della “cartolina”.
Impossibile non citare, tra le molte pellicole presentate, anche quelle che stenderebbero un cavallo ma non un cinefilo: è il caso di Shokuzai, di Kurosawa Kiyoshi, un altro thrillerista (il suo Cure è un capolavoro assoluto) che porta sullo schermo la sua storia di 270 minuti pensata per la tv, ricca di prodezze stilistiche, inquietante e controllata come si deve.